C’è una persona che rappresenta, da sola, i cangianti umori di questa America di inizio secolo.  

Una sorta di sismografo umano delle scosse politiche e culturali che squassano la vecchia Repubblica. Questa persona è il giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy. In una Supreme Court spaccata a metà tra quattro toghe progressiste e quattro conservatrici, Kennedy è il pragmatico che legge i principi fondamentali degli Stati Uniti come fissati dai Padri Fondatori, alla luce delle nostre turbolenti, digitali, stagioni. 

In solo 48 ore la Corte, con Kennedy ago della bilancia, ha precisato che la Costituzione, formale della Legge e materiale del Costume, non obietta in linea di principio al matrimonio di coppie omosessuali e garantisce loro, se lo stato in cui vivono lo permette, gli stessi diritti materiali delle coppie eterosessuali ma ha anche detto basta alla difesa del voto delle minoranze ai seggi elettorali. Un colpo di acceleratore, uno di freno sui diritti. 

Quella di ieri è una vittoria legale, sociale ed etica per il movimento gay. La Corte non dice ancora che il matrimonio dei gay è un diritto assoluto e che proibirlo, o regolarlo, è anticostituzionale, ma con sempre nuovi Stati ad ammettere le nozze omosessuali, inclusa presto la California, contano ormai pensioni, eredità, assistenza medica, adozione dei figli, le «normali» questioni dei matrimoni. E la Corte le ha protette. 

All’interno delle Forze Armate, che per prime hanno dato un riconoscimento di professionalità alle minoranze afro-americane ma che a lungo hanno discriminato i gay, la sentenza permetterà a soldati e ufficiali gay un trattamento simile a quello dei colleghi etero. Anche se resta da vedere come, se trasferiti in uno Stato che ha solo nozze uomo-donna, il diritto verrà applicato. 

I difensori del matrimonio etero hanno visto cadere anche la legge a difesa delle nozze tradizionali firmata, in cerca di voti, da un presidente Clinton insolitamente «all’antica». La loro battaglia continuerà adesso nelle zone più ostili ai gay, al Sud. Dovranno con attenzione portare un caso alla Corte sperando, se non in un bando assoluto, almeno nel diritto degli Stati di dire no locali. Un atteggiamento che sembra condiviso dal Capo della Corte, il giudice Roberts. 

Ma se ieri la Corte del «fulcro» Kennedy riconosce che l’America ormai ha detto sì a fiori d’arancio gay, ieri l’altro, in opposta direzione, ha detto che le minoranze etniche e afro-americane non hanno più bisogno delle protezioni al momento del voto, garantite ai tempi duri dei diritti civili con Johnson. Se un nero è arrivato alla Casa Bianca con Obama, uno a capo dello Stato Maggiore con Powell, il percorso è compiuto: sempre più a rischio nel futuro le «quote» a difesa delle minoranze nelle scuole e università. 

È il paradosso dell’America ai tempi dell’amletico presidente Barack Obama. La politica tra Casa Bianca, Congresso, media, web e tv sembra all’acme delle ostilità, con presidente e partiti incapaci di compromessi e riforme. Sui siti o nei talk show sembra che ogni americano sia o arrabbiato militante di sinistra pronto a Occupare Wall Street o furioso adepto della destra pronto a servire Tea Party al cianuro a ogni avversario. In realtà, la grande massa degli americani decide ormai caso per caso, diffidente dalle ideologie, lasciandosi guidare dal buon senso, non dal populismo. La Corte fiuta l’aria e si adegua, guidata dal sorridente giudice Kennedy, volto che sembra uscito da un film di Capra o Spielberg, l’Americano Buono.