Muore, a 84 anni, in Oklahoma, il poeta russo Evgenj Evtušenko. Aveva criticato lo stalinismo, aveva polemizzato, e cercato di convivere, con il regime sovietico, con periodi di solitudine e altri di popolarità. Spesso aveva cercato rifugio all'estero, ora Putin lo compiange. Da ragazzi il leggendario docente del Liceo Meli di Palermo, Vincenzo Cannata, anche lui da poco scomparso (devo ricordarlo con un post ad hoc, e lo farò) ci faceva leggere Evtušenko, solo per dire quanto formidabile fosse, allora, la scuola pubblica. Diede a me e al mio amico Gabriele Profita da scegliere un testo per il resto della classe e noi, romantici, scegliemmo "Uomo solo". Non erano tempi facili con le ragazze (per me, Gabriele era un mito) e ci riconoscevamo nelle parole di Evtušenko, quando sei solo al cinema il film dura poco, l'intervallo è eterno. Il professore Cannata, uomo pratico, bocciò la nostra scelta, "intellettuali cartacei, romantici, studentesse questi giovanotti piangono!" e diede invece da studiare un altro, stupendo, brano "In stracarichi tranvai". Molti anni dopo, il giorno in cui decisi di tornare in America, con il Corsera di Ugo Stille, incontrai per caso al vecchio bar dell'hotel Plaza, di Roma, Evtušenko. Mi offrì da bere, gli dissi della mia incertezza, e lui, bevendo come un vero russo, senza domani, mi spiegò cosa avrei dovuto fare a suo giudizio. Il cocktail Old Fashioned, avevo 30 anni, pesava nella mia testa e a un tratto, gli recitai "Uomo solo". Evtušenko la ripeté a memoria, in russo, e Corradino, il barman impeccabile, ascoltò in silenzio. Al momento di pagare ci disse che il conto era stato saldato da un altro ospite, seduto dietro sul divano di velluto rosso. Ci girammo a ringraziare, era Leonardo Sciascia, lo scrittore siciliano che conoscevo dal giorno degli esami di maturità. Cortese, felpato, di poche parole come sempre ci invitò a lunch per il giorno dopo. Io andai, e una volta ne scriverò. Evtušenko non venne, ma mandò un cortese biglietto di scuse. Lo consegnò a Sciascia una ragazza bionda, russa, pallida, in giubbotto di pelle e jeans neri. Che poi si girò e scomparve nella bolgia di Via del Corso. In ricordo di quei giorni ecco "Uomo solo", con tante scuse al prof. Cannata.

Che vergogna per l’uomo solo,
che senza un amico,
senza un’amica,
senza moglie,
va nei cinematografi,
dove sempre le proiezioni durano cosí poco,
e cosí lunghi sono gli intervalli!
Che vergogna per l’uomo che nella sua segreta guerra di nervi
contro lo scherno delle coppiette, nel foyer,
si ripara in un angolino,
a masticare una pasta, arrossendo
come di un peccato.
Infine, la vergogna,
l’angoscia
ci aggrega a strane compagnie,
a la servitú di inutili amicizie
ci perseguita fino alla tomba.
Senza ragione si formano gruppi:
in certuni si beve, si beve, si beve,
non ci si rassegna a mettere giudizio;
in altri si è sempre occupati da problemi di vestiti e di ragazze,
in altri si parla di questioni ideologiche —
in apparenza —
ma se meglio li guardi
hanno tutti lo stesso volto…
le mille facce della futilità!
Ora in questa, ora in quella rumorosa compagnia…
Me la sono squagliata tante volte —
non le saprei contare,
ora in una nuova trappola ero rimasto preso,
ma mi sono liberato,
ci ho lasciato soltanto un po’ di pelo!
Me ne sono liberato?
Tu a me davanti,
vuota
libertà,
lo sa il diavolo a che servi!
Mi piaci, libertà.
Ma anche, come una moglie disamata e fedele
mi sei venuta 
a noia.
E tu, amore,
come te la passi?
Ti sei liberata anche tu dalla futilità?
Di chi sono adesso i tuoi occhi bellissimi a mandorla
e le spalle bianchissime, lussuose?
Sono cosí pochi gli anni passati da quell’incontro,
e ora —
che schifo!
Che ignominia,
amore,
che ignominia!
Tu pensi che io, certamente, mi vendico,
e che adesso a qualche nuova avventura sto correndo in taxi,
ma anche se cosí fosse, dove
dovrei far fermare l’autista?
Perché tutto è inutile, vedi,
inutile
mi è impossibile liberarmi di te.
Con me le donne
si ritirano in sé,
adesso sentono
che mi sono tanto estranee!
Sulle loro ginocchia depongo la testa:
non a loro —
ma a te io appartengo.
Ma ecco qua. Ascolta: un giorno
andai da una, in una misera casa di via Sennàja.
All’attaccapanni di povere corna
appesi il cappotto.
C’era nella stanza un abete sghimbescio, illuminato da fioche lampadine,
sedeva vicino una donna, le sue bianche scarpette luccicavano:
severa e chiusa in viso – come una fanciulla.
Era stato tutto cosí facile – l’invito
e il permesso
di venire – che troppo
sicuro di me e con troppa
improntitudine moderno,
non le portai dei fiori ma del vino;
poi la cosa risultò, come si dice,
un poco piú complessa.
La donna taceva,
le brillavano ai lobi degli orecchi
due gocce trasparenti –
due orecchini
orfanelli.
Come malata,
guardandomi con occhi incerti,
sollevando appena il suo debole corpo,
disse sordamente:
«Vattene…
Non bisogna…
Lo vedo: tu non sei mio,
appartieni a lei…»
Una volta di me s’innamorò una ragazzina,
con una frangia scomposta sulla fronte,
con modi di fanciullo, selvatici,
e occhi di ghiaccio,
pallida di paure
e di languore.
Eravamo in Crimea.
Una notte ci fu un temporale,
e la bambina
nel magnesio dei lampi
sotto voce mi diceva:
«Piccolo mio?
Piccolo mio?»
e mi copriva gli occhi col palmo della mano.
Intorno tutto era orrido e solenne:
e il tuono
e il sordomuto gemito del mare —
e lei ebbe una improvvisa intuizione di donna:
e mi gridò:
«Tu non sei mio,
non sei mio!»
Addio, mia cara!
Io sono tuo,
cupamente,
fedelmente,
e chi è solo, di tutti è il piú fedele.
Possa dalle mie labbra non sciogliersi in eterno
la neve dell’addio del tuo piccolo guanto.
Grazie alle donne,
grazie a tutte le donne
bellissime e infedeli,
perché tutto ciò è durato un istante,
perché il loro addio
non è un arrivederci,
perché nella loro falsità piena di sovrana fierezza,
ci donano deliziosi patimenti
e della solitudine gli splendidi frutti.

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko

1959

(Traduzione di Alfeo Bertin)

da “La stazione di Zimà e altri versi”, «Le Comete» Feltrinelli, 1962