La classe dirigente italiana reagì al web con scetticismo irridente. L’idea che una nuova tecnologia potesse sradicare modelli di business, cultura e comunicazione tradizionali era guardata come moda mediocre, entusiasmo di pochi pionieri maldestri. Un intellettuale di gran nome mi disse altero “L’Italia non è l’America, qui le cose si fanno all’italiana”. Negli anni del boom economico del Nord Est, un dirigente Intel, sconsolato ripeteva “Provo perfino a regalargli i computer, niente da fare, sorridono e indicano il registratore di cassa “Dottore, andiamo avanti con quello”, gente che fattura per miliardi di lire e gira il mondo con la 24 ore!”.

         Il web rompeva il modello culturale egemonico del “piccolo è bello”, l’idea che l’Italia dovesse, dalle università ai giornali alle aziende, prosperare su un nugolo di micro iniziative a struttura familiare. Crescere era un male, aziende come Fiat, Eni, Olivetti non erano amate, la tecnologia diffondeva l’alienazione dell’Uomo a una Dimensione criticato dal filosofo Marcuse. Il repubblicano La Malfa e il comunista Berlinguer bocciavano la tv a colori, venti anni dopo Beppe Grillo in teatro sfasciava i computer a martellate prima che Casaleggio lo avviasse al web. Un amministratore delegato chiese al direttore dei contenuti online di avviare il computer e mostrargli i siti prediletti. Il poveretto fallì il test, obiettando “Quel che frega al pubblico io lo fiuto, altro che internet” e rimase al suo posto.

         Anche l’Italia fallì, i dati sono ancora non positivi rispetto alle medie europee sul digitale, non comprendendo che la rete cambia la natura del tempo, non solo economia, informazione, consumi, ma l’interazione con la realtà. Se messe in rete tra loro, le nostre aziende avrebbero potuto, lo suggerì Martin Wolf del Financial Times, sviluppare un potenziale straordinario nel mercato globale. Ma occorreva liberarsi dei parenti nei consigli di amministrazione, scegliere i migliori manager e comunicatori non gli yesmen, tagliare burocrati e passacarte, giusto la classe opaca di intermediari dove alligna la corruzione. Pochi lo fecero. Ricordo il bravissimo titolare di un piccolo brand di alta moda, un genio. Lo pregavo di lanciarsi sul web, si risentì “Venire in atelier è cruciale per i clienti, come con mio padre e mio nonno”. Quando debuttò online il mercato era intasato, il suo errore ripetuto da marchi, istituzioni, testate, ci costò milioni di euro.

         Il ritardo non era né scontato. Il poeta italiano Nanni Balestrini fu il primo a scrivere versi al computer, Tape Mark II, nel 1962, Italo Calvino pronosticò nel 1967 l’intelligenza artificiale, l’ingegnere Mario Tchou elaborò prototipi di personal computer, il fisico Faggin –ne scrive Riccardo Chiaberge nel saggio “L’algoritmo di Viterbi”- inventò i microprocessori che i Brambilla delle aziendine detestavano. Umberto Eco sperimentò presto la scrittura al computer, quando scrittori di grido spiegavano che senza stilografica nessun capolavoro sarebbe più nato. Nel 1996 (con Danco Singer fui felice di far parte del team) Eco lanciò il primo magazine online, Golem. Esperienze locali e politiche, Grauso e Tiscali in Sardegna, i radicali e Il Manifesto a Roma, lasciarono pensare che l’onda potesse dilagare, invece rallentò e ci volle tempo prima che i grandi gruppi economici, i media e i partiti comprendessero che il web non era un gioco da ragazzi.

         L’indifferenza dei vertici innescò nel primo web italiano una reazione opposta, l’idea utopica che internet fosse territorio liberato, Paese delle Meraviglia, Isola che non c’è. Bravi e appassionati emuli di Alice e Peter Pan si illusero che il web fosse “altrove”, luogo libero in cui i Buoni e i loro contenuti potessero volteggiare senza le macchie di consumismo e pubblicità. Google, Facebook, Buzzfeed, la Huffington, Amazon, Ebay curarono questa malattia infantile e la forza delle cose, nel bene e nel male, si impose online.

         Pian piano, l’Italia arriverà dove gli altri son da tempo, internet delle cose, stampanti 3 D, realtà virtuale, e commerce, blockchain, intelligenze artificiali. I ritardi saran colmati, la banda potenziata. A noi che allora, credetemi non si era così in tanti, ci innamorammo del web manca certo l’atmosfera felice da garage, firmare il primo articolo con la mail e prendersi gli insulti della grande firma dispeptica, spiegare all’avvocato Agnelli, al varo del portale Ciao Web, e a Indro Montanelli poco prima che morisse, come funzionasse il web. In assenza di wi-fi, l’informatico Oliva preparò schermate fisse successive, come quinte di teatro, mimando il collegamento a siti diversi. L’Avvocato sussurrò “Il futuro”, Montanelli esclamò “Diavoleria!” ma si capiva gli dispiacesse non fare in tempo ad usarla: che perfetti tweet ante litteram erano i suoi corsivi Controcorrente. Oggi Google custodisce 531.000 voci per Gianni Agnelli e 440.000 per Indro. In bocca al lupo dunque, web azzurro per i tuoi primi 30 anni. Grazie per quel che ci hai insegnato.