Dittature e battaglie, lager e torture, epidemie globali, razzismo, oppressione, indifferenza, il tumulto della guerra e della pace, il peggio ed il meglio del XX e del XXI secolo, famiglia, arte, scienza, cultura, nulla li aveva piegati, fino a Covid-19. Ogni giorno, dall’inizio della pandemia 2020, il New York TimesBillboard, brillante rivista musicale, tante altre testate e siti, raccolgono online le biografie delle vittime, celebri e non, nate negli Usa o in paesi lontani, una per una.

È un commovente sforzo collettivo, segnale del new journalism di comunità, non solo teleguidato dalle cosiddette “notizie”, ma teso a informare sul contesto degli eventi, che dominerà la comunicazione nel prossimo futuro. Leggiamo, negli Usa, in Italia, in Europa, nel mondo le cifre dell’epidemia, quasi 90.00 morti negli Stati Uniti, oltre 30.000 da noi, 312.000 in totale. Ma le cifre azzerano i volti dei caduti, ognuno diverso dagli altri, unico, indimenticabile. Nel 1983, lo scrittore di origine jugoslava Danilo Kiš pubblicò un libro molto bello, “Enciclopedia dei Morti” (Adelphi), immaginando di ricostruire i volti perduti degli ignoti, i cui nomi la Chiesa Mormone custodisce in immense gallerie sotterranee a Salt Lake City, certa di preservarne così le anime in eterno. Ho allora letto, per voi, lungo varie notti, le biografie delle vittime e provo qui a raccontarvene alcune, in ricordo di tutte le altre. 

Antonio González Pacheco e Rafael Gómez Nieto si sarebbero odiati in vita, nemici giurati nella loro patria passionale, la Spagna della politica. Nieto era un miliziano repubblicano della Guerra Civile, e, caduta Madrid davanti alle forze fasciste del generale Franco, fugge in Francia, arruolandosi con la Seconda Divisione Corazzata del leggendario generale Leclerc, nel reparto dei soldati spagnoli de La Nueve. Veterani esperti, Nieto e i suoi commilitoni sono tra i primi ad entrare a Parigi liberata dai nazisti, il 24 agosto del ’44. Il loro carro armato si chiamava “Guernica”, in onore della città basca martire, celebrata dal capolavoro di Pablo Picasso, e difese il Municipio parigino dai cecchini tedeschi.

Pacheco era un poliziotto spagnolo e, sotto la dittatura che Nieto aveva combattuto, era stato accusato di torturare i dissidenti catturati. Se la prendeva soprattutto con i comunisti, legati ai radiatori roventi, picchiati con i bastoni sulla pianta dei piedi, appesi con le corde alle travi. Caduto il regime, fu al centro di tanti processi, perché pagasse infine per le sue colpe, perfino in Argentina arrivava la scia delle sevizie, ma prescrizione e amnistia lo salvarono dal tornare come reo nelle galere in cui aveva sparso il terrore. Nieto aveva 99 anni, Pacheco 73, il virus li ha uccisi a pochi giorni di distanza.

L’arte tutta è stata massacrata, le stelle vanno in prima pagina, ma quanti scompaiono senza clamore? Gli amanti del jazz contemporaneo seguono fedeli, da anni, i tre fratelli Marsalis, soprattutto i più noti, Wynton e Branford. La loro musica ha esportato il jazz di New Orleans, preservandolo dalla fusion con altre scuole che rischia di edulcorarlo, ma liberandolo dalla noia museale dei festival storici. Wynton Marsalis ha diretto per anni la sala jazz di Columbus Circle a New York, e le note della sua orchestra, in certe notti, si alzano fino alla statua di Colombo, davanti Central Park. Ma nessuno di noi avrebbe mai sentito parlare dei fratelli Marsalis senza il loro padre, Ellis Marsalis, patriarca del clan, ucciso dalla pandemia a New Orleans, non lontano dalla Bourbon Street cara a Louis Armstrong.

Con lui se ne va Ty, rapper inglese che odiava la degenerazione commerciale, “l’identità l’ho conquistata a pugni in faccia e sangue sulle labbra” diceva: aveva 47 anni. Non so se Ty avesse mai incontrato Fred the Godson, 41 anni (secondo la rivista Billboard Fred aveva invece 35 anni), come lui pioniere del rap, ma a New York. Da un’epica sessione del 2012 a Funkmaster Flex Hot 97 Radio Show i suoi versi raggiunsero la città intera, l’ultimo postato ora dall’ospedale Montefiore, pugno chiuso, maschera ossigeno “Tenetemi nelle vostre preghiere…”. Con Fred il tastierista Dave Greenfield, il cantante gospel Troy Sneed, il DJ di Detroit Mike Huckaby, il cantante John Prine…

Qui il mio pellegrinaggio si imbatte, capiterà purtroppo a più riprese, in una persona che ho conosciuto personalmente. Da ragazzino, con il mio amico Fabio Caronna, poi rispettato farmacista e critico musicale, ero assiduo al Brass Group, concert hall fondata dal jazzman Ignazio Garsia, che ci dava la chance di ascoltare e intervistare le stelle, Charlie Mingus, Stan Getz, Gillespie e tra loro Lee Konitz. Konitz aveva suonato il sax con Miles Davis, con il malinconico e cerebrale Lennie Tristano mantenendo il suo stile, cool jazz, anche negli anni tumultuosi di Charlie Parker. Tutti i musicisti cadevano, prima o poi, sotto l’influenza magnetica di Parker, ma Konitz difese le cadenze raziocinanti del cool jazz. Ridendo, mi raccontò: “Non è che non volessi suonare come Bird -era il soprannome di Parker- è che proprio non ero capace di emularlo! Poi una volta lui stesso mi disse: “Lee sai, ho sentito un po’ di gente che dice di suonare giusto come me: bene, a me non pare affatto di suonare in quel loro modo!”, aneddoto che amava ripetere in palcoscenico tra le risate del pubblico.

Il viaggio tra le necrologie intreccia destini remoti, la pandemia uccide negli stessi giorni Donald Kennedy neurobiologo e presidente di Stanford University, 88 anni, direttore dell’agenzia Food and Drug Administration ai tempi del presidente Carter, e Donald Reed Warren, di soli due anni più giovane, tenente colonnello pilota dell’aviazione militare, veterano del Vietnam, businessman. È difficile che i due Donald si siamo incrociati, fino alla pandemia, ma guardare da vicino le loro vita lontane lascia riapparire un filo, formidabile. Donald Kennedy era il professore che protesse la carriera universitaria di Cory Booker, giocatore della squadra di football di Stanford, una foto li ritrae con il ragazzo, che diventerà senatore democratico e candidato alle primarie per la Casa Bianca 2020, a sollevare in trionfo il presidente, dopo una storica vittoria. Donald Warren era il fratello maggiore della senatrice democratica e candidata alle primarie per la Casa Bianca 2020, Elizabeth Warren, che spesso lo citava nei comizi, militare, repubblicano, uomo tutto d’un pezzo. Nei roventi dibattiti televisivi che hanno portato alla nomination dell’ex vicepresidente Joe Biden, Kennedy tifava per l’ex studente Booker, Warren per la combattiva sorella.

Il Fato, la divinità Ananke cui i greci antichi si affidavano stoici, gioca parabole segrete, e provare a svelarle lascia commossi e stupiti. Il fratello della Warren era in Vietnam negli stessi anni di Ralph McGehee, che a sua volta, una generazione prima di Booker, dal 1946 al 1949, era stato asso del football nella squadra dell’università cattolica di Notre Dame. Allora la Cia, lo spionaggio americano, era persuasa che i giovani sportivi laureati fossero materiale perfetto per la prima linea delle missioni segrete e quindi lo recluta, mandandolo in Vietnam. Nelle sue memorie, “Deadly Deceits”, che invano la Cia prova a censurare, McGehee, spento dal morbo a 92 anni, racconta della delusione, quando l’idealismo di patriota “persuaso di difendere la democrazia” finisce al suono del rock “The end of the world”, con bombardamenti, tradimenti, bugie “volevamo salvare il mondo, lo distruggevamo”.

Anche Jerzy Glowczewski, piegato dalla malattia a 97 anni, era sopravvissuto a una guerra, il suo diario di bordo registra oltre 100 missioni aeree con la Royal Air Force britannica, dove si era arruolato dopo la caduta della Polonia. Anche lui aveva scritto un’autobiografia, ricordando per esempio il Capodanno 1945, l’ultimo della guerra, quando, in volo tra le nuvole sull’elegante Spitfire, gli apparve dietro un Focke-Wulf 190 della Luftwaffe nazista “Mi guardai alle spalle, il Focke era già un crocifisso in rovina nella luce brillante del giorno. Un altro boato e precipitò”: gli storici militari considerano quel duello uno degli ultimi tra caccia tradizionali.

Philip Kahn, come Jerzy Glowczewski e Ralph McGehee conosceva quella che lo scrittore russo Vasily Grossman chiamava “la brutale verità della guerra”, aveva due medaglie di bronzo per la battaglia di Iwo Jima e aveva lavorato ai piani strategici del raid atomico Usa contro Hiroshima, in Giappone. Eppure, a 100 anni compiuti, aveva un ricordo altrettanto straordinario, era tra gli oramai pochissimi superstiti dell’influenza spagnola che, nel 1918-1919, colpì il mondo. Il suo fratello gemello, Samuel Kahn, ancora in fasce, ne morì, aspettando per un secolo esatto che Philip lo raggiungesse, centenario vittima della nuova pandemia.

Vi sembra che il Destino giochi le trame con misteriosa efficacia? O siete tentati di dire “Casi straordinari, ma solo casi”? Allora dopo i due gemelli Kahn, Philip e Samuel, e il loro appuntamento tra pandemie XX e XXI secolo, considerate Hilda Churchill, che di anni ne aveva 108, nata nel 1911! Quando la Prima guerra mondiale 1914-1918 finisce, Hilda ha già 7 anni, e ricorderà dunque bene l’arrivo della Spagnola. L’intera famiglia Churchill, allora residente a Crewe, nei pressi di Manchester, si contagia, il padre stroncato per strada, la sorellina Beryl May dopo di lui, alla fine solo Hilda e la mamma si salvano.

Il Covid-19 colpisce i sopravvissuti all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, come tutti, certo, ma andiamo a guardare da vicino quelle vite. Idris Bey aveva 59 anni, ex marine lavorava come istruttore al Fire Department di New York, dopo avere guidato ambulanze. Quando gli aerei dei qaedisti colpirono le Torri era in prima linea, la sua ambulanza travolta dalle macerie, lui stesso dato per disperso, salvo per miracolo. Idris era un devoto musulmano, sempre primo nella preghiera in moschea, a digiuno nel Ramadan, in pellegrinaggio alla Mecca. Se ne è andato a pochi giorni da Albert Petrocelli, 73 anni, cattolico di fede vera e compagno tra i pompieri di New York del FDNY, italo-americano che nell’isola di Staten Island, dove viveva, regalava rosari e santini ai passanti. Li aveva fatti benedire da Papa Francesco nel 2015, presentandoglieli raccolti nel casco da vigile del fuoco: sul fondo la foto di suo figlio Mark, caduto quel giorno alle Torri: “Io e l’altro mio figlio arrivammo tra i primi, volevamo salvare Mark, non ci riuscimmo” raccontava.

Suor Georgianna Glose era cattolica come Petrocelli, viveva a Fort Greene, Brooklyn, assistendo poveri e senza tetto. Aveva denunciato gli abusi sui minori della sua Chiesa cattolica, pagando il prezzo dell’isolamento. Prima che la assonnassero per il Covid ha chiesto di fare un’ultima telefonata, per accertarsi che la scuola per i ragazzi a rischio che dirigeva trovasse subito una supplente per lei, in agonia.

Quando studiavo filosofia, seguivo le scuole in competizione intellettuale, i postmoderni di Jacques Derrida opposti ai logici e ai filosofi analitici, tra cui Saul Kripke. Io ero schierato con i razionalisti “contro” i postmoderni, ma affascinato dalla narrativa nichilista di Derrida. Una vita dopo, scorro la lista dei defunti e, come in un messaggio in bottiglia dalla bibliografia della tesi di laurea, leggo della morte di Marguerite Derrida, psicoanalista, 87 anni, moglie di Jacques Derrida, il pensatore più influente nei campus d’America. Nelle stesse ore, il filosofo Saul Kripke annuncia la scomparsa della sorella Madeline Kripke, che nel suo appartamento al Greenwich.