Ai tempi della dinastia Ming, tra il 1405 e il 1433, l’ammiraglio cinese Zheng He lanciò una spedizione navale sui cui fini e strategie ancora gli studiosi di storia militare si accapigliano. Mobilitando una flotta che per stazza, tecnologia e numero di vascelli ridicolizzava l’Invencible Armada che l’impero spagnolo avrebbe, invano, varato un secolo e mezzo più tardi contro la Corona inglese, Zheng navigò nelle acque contese oggi tra Stati Uniti e Cina, da Giava all’India, dal Mar Cinese Meridionale all’Oceano Indiano, fino al Corno d’Africa dove il presidente Xi Jinping estende la sua influenza e lo Stretto di Hormuz, chiave d’accesso al petrolio iraniano. Non aveva in mente un piano coloniale, non asserviva le potenze locali, limitandosi a predicare la superiorità del modello politico del Regno di Mezzo a Pechino, richiedendo il kowtow, tradizionale riverenza, e ricevendo tributi simbolici.

Zheng He era una personalità originale, eunuco musulmano coscritto a forza nell’esercito da bambino, indipendente dunque dal pensiero dominante, Confucio e Buddha, che prescriveva all’impero splendido isolamento e sdegno per cultura e tecnica degli stranieri. Redigeva puntuali diari di bordo, con il piglio dell’esploratore, e fondava una nuova scuola politico-militare che avrebbe potuto portare il suo paese al dominio del mondo. L’ex segretario di stato americano Henry Kissinger, lo statista che, nel 1972, con il presidente Richard Nixon, incontrando Mao Zedong schiuse le porte al nostro presente, nel formidabile saggio “Cina” (Mondadori) ancora si meraviglia dell’esito della spedizione di Zheng, perché nel 1433, il nuovo imperatore, senza spiegazioni, dissolse l’armata navale, ordinando la distruzione dei rapporti segreti e condannando la nazione all’isolamento.

La lezione di Zheng doveva forse essere presente al Primo Lord dell’Ammiragliato britannico Ammiraglio Sir John “Jackie” Fisher quando, nel 1905, scriveva presago: “Nel pensare il disegno di una nave militare, il passo essenziale è cancellare dalle nostre menti che ciascuna delle navi che progettiamo ora sia necessaria, o perfino raccomandabile”. Sir Fisher, spiega il comandante della Royal Navy Angus K. Ross, docente di strategia negli Stati Uniti, “voleva che il suo Stato Maggiore si staccasse dal pensiero ortodosso dominante e lo incoraggiava a sviluppare nuove idee. Fisher non voleva che la creatività fosse bruciata da tradizioni e eredità culturali”.

Il lettore che affronti, in questi giorni, la tensione tra Cina e Stati Uniti è avvinto dai titoli di giornali, tv, web, in un’escalation senza pari da mezzo secolo. Il segretario di Stato Mike Pompeo, successore di Kissinger, sceglie la Biblioteca presidenziale di Nixon, a Yorba Linda, in California, per raderne al suolo l’eredità: la Cina ha rotto gli impegni internazionali sull’autonomia di Hong Kong, le intese sul Mar Cinese Meridionale e continua a derubare gli americani sulla proprietà intellettuale. Pompeo si appella dunque “ai paesi liberi”, gli alleati europei, l’Australia, il Giappone, contro “lo stato autoritario cinese che aggredisce ovunque le libertà: se non cambiamo la Cina comunista, la Cina comunista cambierà noi”.

La influente portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, figlia di dirigenti di partito, rispolvera le immagini care a Mao, Pompeo “è come una formica che provi a scuotere un albero… la sua crociata contro la Cina è futile”. Del resto, da tempo, Hua ripete “gli americani sui diritti civili hanno cuore grande e mani lunghe, pensino piuttosto ai diritti umani in casa loro”. E venerdì il consolato Usa a Chengdu, nella provincia del Sichuan, avamposto da cui i diplomatici di Washington seguono con informatori e rapporti la repressione contro i buddhisti in Tibet e i musulmani uiguri in Xinjiang, è stato chiuso, in rappresaglia contro l’analoga chiusura del consolato cinese a Houston, Texas, pochi giorni prima, accusato di essere laboratorio nevralgico del furto di copyright. Seguendo la campagna contro i ricercatori cinesi nelle università Usa, che svolgerebbero un lavoro di infiltrazione per conto dell’esercito di Xi, quattro studiosi con passaporto di Pechino sono stati incriminati per frodi sui visti, tre arrestati e uno s’è rifugiato al consolato di San Francisco. Spesso, negli atenei Usa, gli studenti cinesi devono aderire a cellule del partito comunista, subendo un doppio controllo, dalle autorità locali e dalle spie del loro paese.

La Cina è all’offensiva: su Hong Kong ha cancellato gli accordi siglati quando la metropoli finanziaria è tornata alla madre patria dopo il colonialismo inglese, ha ordinato sanguinosi scontri al confine con l’India, rilanciando la guerra commerciale con l’Australia su lana e carne: il 70% degli uomini d’affari australiani si dice, in un sondaggio, preoccupato per il futuro. Non si tratta di colpi di mano, Xi sa che i cento giorni mancanti alle elezioni Usa, e i mesi di interregno in caso di vittoria del candidato democratico Joe Biden, dal voto del 3 novembre all’inaugurazione nel gennaio 2021, vedranno Washington in preda a una guerra civile politica feroce, con la pandemia Covid-19 che non si riesce a domare nel Sud e con stati considerati bastioni repubblicani, dal Texas alla Florida, ora incerti. Ci si vuole dunque rafforzare nei teatri di scontro, guadagnando spazio per le future trattative fiutando il declino Usa temuto su Foreign Affairs da Alexander Colley e Daniel Hexon.

Sulla proprietà intellettuale, come su Hong Kong, Pechino è consapevole di essere, de iure e nella realtà, dalla parte del torto ma, nel vuoto di potere lasciato dalla caotica amministrazione di Donald Trump, occupa spazi, e, laddove non riesce a tessere alleanze, prova a intimidire, certa che non ci sono né istituzioni globali, vedi il caso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, né alleanze, vedi Nato, né più gli Usa come arbitro rispettato, a temperarne le azioni.

“È un evento - annota per il quotidiano Financial Times Jonathan Hillman, analista del Center for Strategic and International Studies - che la notizia della chiusura del consolato cinese a Houston sia arrivata solo dopo che il fitto fumo (dei documenti bruciati, pare in bidoni di carburante ndr.) ha attratto i pompieri, ma l’evento segue le accuse del segretario Pompeo, del ministro della Giustizia Barr e del direttore dell’Fbi Wray” contro la rottura dei copyright, un affare che costerebbe, secondo le stime più attendibili, agli americani tra i 225 e i 600 miliardi di dollari l’anno (tra 193 e 514 miliardi di euro). L’Fbi ha aperto 2500 fascicoli contro i furti di tecnologia, che definisce “il più grande trasferimento di ricchezza della storia umana”.

Come avrebbero reagito gli ammiragli Zheng He e Sir Fisher davanti a questo dilemma? Si direbbe all’esatto contrario dei leader del XXI secolo, che, anziché guardare al futuro, si barricano dietro comportamenti, modi, culture e atteggiamenti del passato. Secondo Alan Dupont, consigliere dei governi australiani, “La Guerra Fredda Usa-Cina è già cominciata” perché Pechino ritiene che Washington voglia frenare il proprio declino controllando la Cina, mentre gli americani sono persuasi che Pechino li minacci militarmente, rubando risorse e inquinando la democrazia, e repubblicani e democratici condividono la dottrina anti-Pechino. Ma, ecco il punto che sfugge agli europei, e soprattutto a noi italiani obnubilati da opposte propagande, “pur importanti, le guerre commerciali e tecnologiche Usa-Cina sono solo sintomi di un assai più pericoloso conflitto geopolitico, che affonda nelle opposte ambizioni strategiche e in due irriducibili sistemi politici. Per il presidente Trump la sfida con la Cina serve a cancellare le ingiustizie sulle tariffe e i copyright, lasciando l’America superpotenza. Ma anche Xi lotta contro il passato di umiliazioni della sua nazione, e coglie l’attimo per affermarsi egemone, oggi in Asia, domani nel mondo”. Entrambi i leader hanno fretta, le elezioni vicine per Trump, la cattiva demografia cinese che induce Xi a diventare potente prima che il paese invecchi del tutto.

Ma la Seconda Guerra Fredda sarà diversa dalla Prima, che alla fine si concluse senza conflitto aperto, “Lunga pace” secondo la definizione dello storico John Lewis Gaddis. Usa e Urss non furono mai rivali economiche, l’interscambio fra loro era insignificante e il peso del Pil limitato, Mosca non superò mai il 40% del prodotto Usa, Pechino sogna ormai il sorpasso. Teatro di un possibile show down, non più l’Europa, dove un tempo Nato e Patto di Varsavia si fronteggiavano, ma le immense distese dell’Asia, dalle giogaie dell’Himalaya al Mar Cinese Meridionale.

Secondo Vadim Kozyulin, consigliere militare del Cremlino ai tempi dell’Unione Sovietica, “gli Stati Uniti si riarmano per raggiungere una totale invulnerabilità nella difesa contro i nemici” e in effetti, considerando spesa per gli armamenti e forze a disposizione, Washington gode di un vantaggio strategico insormontabile in caso di scontro contro la Cina, perfino contro un’alleanza di Xi con la Russia di Vladimir Vladimirovic Putin come vassallo.

A questo punto però possiamo immaginare le voci di Zheng He e di Sir Fisher ad ammonirci: occhio, state combattendo le guerre del passato, con le strategie del passato mentre, nei negoziati commerciali e diplomatici e in campo, abbiamo davanti le guerre del futuro. Fino a pochi anni fa, Pechino non disponeva di alcuna portaerei, poi ne ammodernò una vecchia, rottamata dall’Ucraina e ne progettò un paio, poca roba rispetto alla ventina di portaerei di varie classi che batte bandiera a stelle e strisce.

Ma siamo certi che la III Guerra Mondiale vedrà nel Pacifico epiche battaglie navali di portaerei, come durante il conflitto seguito all’attacco a Pearl Harbor del 1941 tra Usa e Impero giapponese. L’ex comandante britannico Angus Ross ne dubita e qui diventa cruciale un dettaglio di cui nessun giornale parla, ma che potrebbe essere decisivo. Le portaerei Usa di classe Ford sono infatti minate da una serie di problemi tecnici, e la Marina Usa aveva deciso di ridisegnarle radicalmente, riducendole di stazza e dando in cambio una maggiore dinamica, meno potenza, più versatilità.

Ma, durante una furibonda campagna elettorale, una Marina che preferisca tecnologia, digitale, piccole navi-laboratorio di informazione, capaci di intercettare e colpire il nemico come uno sciame di vespe letali, mal si accorda con la propaganda muscolare del presidente Trump, che preferisce - lo ha detto in varie occasioni - le vecchie catapulte a vapore per i jet che decollano dalle navi, rispetto ai nuovi congegni elettromagnetici di lancio, non vuole sentirne di down sizing. Un campo da calcio navigante, con a bordo decine di caccia, gli sembra un simbolo della potenza Usa migliore di una flottiglia di navi armate di computer a intelligenza artificiale, algoritmi e collegamenti con banda 5G. Era stato invece il suo rivale di partito, il compianto senatore repubblicano John McCain, ex ufficiale di Marina, un padre e un nonno ammiragli, a far pubblicare un libro bianco per il varo di mini-portaerei, capaci di combattere la guerra asimmetrica del futuro, ora gli uomini di Trump cancellano ricerche e progetti, e si resta ancorati al passato, come fossimo davanti all’ammiraglio Hisoroku Yamamoto 1884-1943.

Anche Pechino ha i suoi passatisti e i suoi innovatori, e gli ultimi hanno avuto di recente un gran successo, riducendo i fantaccini dell’Esercito Popolare di 300.000 unità, ma aumentando il reclutamento fra i marines, corpo fin qui negletto a Pechino, da 30.000 a 100.000 soldati, modellandolo sulla falsariga dell’U.S. Marine Corps, da sempre anfibio, ridotto nei ranghi, duttile e capace di adattarsi a ciascun terreno, come canta il suo inno ufficiale.

C’è ancora tempo, spazio e speranza che la storica collaborazione Usa-Cina aperta da Mao, Deng Xiaoping, Kissinger, Nixon e incoraggiata da tanti leader delle due potenze non si inaridisca e gli europei potrebbero dare una mano, magari meno svagata. Ma se la crisi, come possibile, si aggravasse, non vi concentrate, come i gonzi di moda, sui bollettini di Borsa e le notizie commerciali di dazi locali. Pesate le portaerei e contate uno per uno computer e marines, per capire come andrà a finire.