Le elezioni americane di Midterm erano un referendum sul presidente Barack Obama e il risultato è schiacciante: l’elettorato ne ha sconfitto la politica, la visione, la personalità. Obama nel 2008 arriva alla Casa Bianca, trascinando i democratici alla vittoria a Camera e Senato. Nel 2010 perde la Camera, nel 2012 viene rieletto mobilitando la base progressista contro l’inane rivale Romney. Nel 2014 i repubblicani riconquistano la Camera Alta e i numeri sono spietati: Senato 52-45, Camera 243-180, Governatori degli Stati 31-16. 

 Un documento repubblicano, perfidamente fatto arrivare al Washington Post, è candido «La campagna 2014 ha un solo messaggio: contro Obama, contro Obama, contro Obama». Il Presidente si ficca nella trappola il 2 ottobre, in casa, a Chicago, con un infelicissimo comizio «Il mio nome non sarà sulle liste, ma non fate errori: le mie leggi sì, una per una». L’America condivide ma lo sconfessa. 

 La narrativa elettorale 2008-2014, con il Grand Old Party repubblicano, ricattato dalla destra populista dei Tea Party e sovrastato dal Presidente premio Nobel, finisce martedì. I repubblicani eleggono il primo senatore afro-americano da 150 anni, con Tim Scott, nella South Carolina ex sudista, con i Tea Party entusiasti a far campagna per Scott. I repubblicani, che dominano tra gli elettori maschi bianchi ma languono tra donne e minoranze, eleggono alla Camera Elise Stefanik, New York, laureata ad Harvard, la più giovane donna nella storia del Parlamento. Con lei, Joni Ernst, prima senatrice eletta dal rurale Iowa, prima veterana dell’esercito. Altro record con Shelley Moore Capito, prima senatrice eletta in West Virginia. Al Congresso arrivano per la prima volta 100 donne parlamentari e Hillary Clinton è avvertita, i repubblicani le contenderanno il voto femminile 2016. 

 Subito scatta la faida democratica Congresso-Casa Bianca, inusitata in ferocia e petulanza. David Krone, capo di gabinetto dell’ex leader democratico al Senato Reid, apre il fuoco: «La popolarità del Presidente è sotto il 40% che potevano fare i candidati? Non è sotto accusa il nostro messaggio, ma il nostro messaggero…». Traduzione: abbiamo perduto per colpa di Barack Obama; Isis, Ebola, disastro del sito riforma sanitaria che non partiva mai, economia in crescita ma senza benefici per il ceto medio in crisi, incertezze sull’emigrazione, sono i capi d’accusa. 

 Il Presidente aveva vinto nel 2012 grazie ai Big Data, mobilitando online, uno per uno, gli elettori, soprattutto gli ispanici favorevoli alla riforma dell’immigrazione. Martedì giovani e minoranze, guardia pretoriana di Obama, si astengono, delusi dall’amletico Presidente. «A Midterm votano gli over 60 - si difende una consulente democratica - i nostri giovani torneranno alle presidenziali». È possibile, ma intanto la vittoria stimola il Gop repubblicano a non ripetere gli errori 2012, magari scegliendo un candidato che, come Marco Rubio o Jeb Bush, sia legato agli ispanici e parli spagnolo. 

Il nuovo leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, propone «lavoriamo insieme» e Obama lo riceverà domani. I due si sono incontrati solo una volta e, sempre a disagio nel tu per tu con i rivali, Obama lo ha chiamato «Mike» per l’intera riunione, aumentando il disagio. 

 Il gridlock, ingorgo politico Congresso-Casa Bianca, continuerà, come o peggio di prima. La destra Tea Party sogna l’impossibile impeachment, incriminazione, per Obama, su una delle sue fole complottiste. Non avverrà, ma l’intesa è impervia con i democratici in lite fra loro. Obama, alle strette, potrebbe firmare prima di Natale un executive order e legalizzare gli emigranti illegali. I repubblicani lo bloccheranno, ma avranno contro gli ispanici. Ogni riforma si insabbierà, l’opposizione non ha voti sufficienti a cancellare i veto presidenziali, la Casa Bianca boccerà le proposte del Congresso, soprattutto se minacciassero Obamacare, la controversa riforma sanitaria. 

 America e mondo pagheranno il prezzo dello stallo, per esempio sul trattato commerciale Usa-Ue, nelle guerre in Iraq, Siria, Afghanistan, Ucraina. Obama è delegittimato davanti all’aggressività di Putin, l’espansionismo cinese, gli eterni dubbi europei, le turbolenze India-Pakistan. 

 La corsa per la Casa Bianca 2016 è partita ieri. Il manifesto repubblicano va scritto da zero, a Midterm han vinto «contro» Obama, per la Casa Bianca devono trovare un candidato, un programma e una coalizione che non si intravedono. 24 mesi di muro contro muro a Washington sono per l’ex senatrice Hillary Clinton una benedizione. Non si candiderà schermandosi dagli errori di Obama, ma denunciando con forza la paralisi repubblicana al Congresso, battendosi dall’opposizione, non da 8 anni di governo. 

 Obama vede sfumare il sogno, la visione, la presidenza, sconfitto dall’algida, cerebrale, incapacità di amministrare: «George W. Bush è leader che detesta pensare, Barack Obama intellettuale che detesta governare» sintetizza lo studioso Ian Bremmer. Per capire che America s’è mossa ieri, invisibile ai «pundit», gli analisti di Washington e Bruxelles, leggete la biografia del neosenatore repubblicano dell’Arkansas Tom Cotton: nato nello stato di Clinton, 37 anni, figlio di un veterano del Vietnam, va dalla scuola pubblica fino ad Harvard Law School, come Obama, ma invece di far soldi in uno studio legale prestigioso, o il volontario nei ghetti di Chicago come il Presidente, si arruola nella 101 Airborne Division, serve in combattimento in Iraq e Afghanistan, viene decorato e promosso capitano. Con Stefanik, Capito, Ernst e Scott, Cotton è la faccia del Gop che rompe gli schemi e vuole Casa Bianca e pelle di Hillary. Nel frattempo, però, preparatevi a due anni di paralisi, campagna feroce, zero riforme nella grande democrazia americana.