Obama ha annunciato ieri notte, nel messaggio sullo Stato dell’Unione, l’aumento del salario minimo da $ 7,25 l’ora a $ 10,10 entro il 2015.  

Con circa 6 dollari comprate un panino Big Mac, Coca e patatine nelle maggiori città, a Brooklyn un gallone di benzina super (3,78 litri) costa 3,79 dollari. Il salario medio americano, l’anno scorso, era calcolato in $ 51.017, ma studiare un anno a un’università d’élite ne costa 65.000, solo di tasse, vitto, alloggio. Per raggiungere almeno la media, chi lavora al minimo garantito ora dovrebbe sgobbare 5000 ore l’anno, per fare laureare un figlio ad Harvard restare al lavoro 26.000 ore.  

È la grande divisione americana 2014, il ceto medio schiacciato da crisi e perdita del lavoro sicuro per la tecnologia e la crisi dell’industria classica. Nei primi Anni 80 dello scorso secolo un operaio specializzato arrivava a guadagnare 27 dollari l’ora, ed era «middle class», posto garantito, figli a scuola, mutua, pensione. Quando comincia la concorrenza della mano d’opera asiatica, in particolare cinese, nuovi concorrenti vengono pagati appena 16 centesimi l’ora, impossibile reggere. La crisi finanziaria 2008 e l’automazione dei servizi fanno il resto. 

Quando nei sondaggi si chiede agli americani: «lei di che classe si considera?», la stragrande maggioranza replica «ceto medio», e si intrufolano colletti bianchi, miliardari, manager, operai, braccianti, immigrati con botteguccia in periferia. Oggi la middle classe è in crisi. L’economista premio Nobel Paul Krugman, abile con le polemiche come con i teoremi, scrive nel blog sul «New York Times» «Siamo vicinissimi alla pura lotta di classe, la difesa del diritto dei privilegiati a conservare ed estendere i propri privilegi. Non si tratta di Ayn Rand (scrittrice liberista Usa ndr) ma dell’Ancien Régime». 

Se un Nobel, sul «New York Times» online, evoca una Maria Antonietta post moderna, «Il popolo non ha pane? Che mangi panini Eataly!», è chiaro che per Obama, che a novembre affronta difficilissime elezioni di Midterm, la svolta populista è inevitabile. Basta con l’appello unitario dei lontani giorni dell’elezione 2008, «basta tingerci il volto con i colori dei partiti, siamo tutti Americani!», meglio consolidare la base e portare al voto, mobilitati dagli esperti di Big Data, i propri partigiani. Robert Reich, ex ministro di Bill Clinton, abbandona la filosofia moderata e diventa popolare col brillante documentario «Inequality for all»: «Il 55% degli americani tra i 25 e i 60 anni soffre almeno un periodo di povertà, la metà dei bambini Usa deve, nell’infanzia, nutrirsi con i coupon per l’alimentazione statali». Il linguista e militante Noam Chomsky non ha sottigliezze: «Le élite del business vanno all’offensiva della lotta di classe in America». 

È vero che la disuguaglianza tra le classi è enormemente cresciuta in America, come in Europa o in Asia, ma non per effetto «delle feroci politiche repubblicane applicate dai tempi di Ronald Reagan» come osserva sull’«Huffington Post» Bob Burnett. È l’economia globale, il declino dei posti del ceto medio, lo schiacciante peso della tecnologia, il volo dei nuovi titoli in Borsa a separare chi ha i saperi del mondo digitale da chi non li controlla. Lo scontento squassa i dati di consenso del presidente, dopo sei anni alla Casa Bianca. Il grande Roosevelt piaceva al 58% degli americani, Truman solo al 36, il rassicurante Eisenhower al 60, Reagan a un 64% da record - e come mai questo favore, anche tra la classe operaia bianca che lo votava disertando i democratici, nonostante avesse capeggiato la Crociata contro il lavoro? Clinton gli sta vicino, 62%, a riprova che l’America profonda è moderata. Obama si ferma, al sesto anno, a un gramo 43%, addio sogni di gloria, in virtuale pareggio con il detestato George W. Bush, approvato dal 39% degli elettori. 

Le due cifre parallele, Reagan-Clinton al 60%, Bush figlio-Obama al 40%, raccontano due Americhe, quella di fine XX secolo ancora persuasa di essere leader e quella, dura, XXI secolo, affranta di non farcela più. Il «Washington Post» stima che la maggioranza degli americani si considera «incerta e pessimista» perché «il Paese è su una strada sbagliata, si sta consumando». 

Il filosofo Francis Fukuyama, in un bellissimo saggio sulla rivista The American Interest, «The great unraveling» il grande disfacimento, lamenta il peso delle lobbies – vera mano morta sul Congresso - e la «Vetocrazia», il dirsi sempre no a vicenda che blocca il sistema (morbo che attecchisce anche in Italia). Secondo il Labor Department, guadagneranno la paga minima di $10,10 i nuovi assunti con meno di 20 anni. Nel 2012 il salario minimo era percepito da 4,7 milioni di lavoratori, la metà sotto i 24 anni, due terzi donne, 20% ispanici, 15% neri. Solo il 35% ha un lavoro a tempo pieno, gli altri part time. Quasi la metà, 43,8%, lavorano nell’industria alimentare. 

Ora i liberal diranno che, finalmente, sull’onda del sindaco di New York De Blasio che chiede più tasse per i ricchi – contrastato dal suo compagno di partito e governatore Andrew Cuomo - Obama fa qualcosa per i poveri. Si tratta però di una misura giusta che avrà scarso impatto, se non simbolico, sugli elettori progressisti. I conservatori osserveranno che gli anziani, i veri poveri, non si avvarranno dell’aumento e le piccole aziende affondano, tra nuova mutua sanitaria e il salario. Per creare occupazione chiedono innovazione. 

L’America è uscita dalla crisi prima e meglio dell’Europa, il boom dello shale gas fa miracoli, ma il lavoro non cresce e non crea posti solidi, «da middle class». Il Paese vorrebbe benessere, sviluppo, la politica resta ostile, partigiana. Non è la «lotta di classe» su cui si slogano i bloggers celebri, ma «il disfacimento delle istituzioni classiche» che sgomenta Fukuyama sì.