I giornalisti tradizionali sono ridotti a «tribù la cui lingua non ha più il respiro, o la capacità, di adattarsi a riflettere la realtà, la cui confusione è radicata al punto che, quando riescono a rendersi conto del dilemma, se la prendono con la realtà e non con se stessi… La domanda decisiva sul giornalismo classico non è neppure se sopravvivrà come professione, ma se merita di sopravvivere, e – nel caso sparisse – se qualcuno davvero ne sentirebbe la mancanza…». A fare questa impietosa diagnosi dell’informazione non è un blogger 5 Stelle, persuaso che gli «old media» siano al soldo delle Conferenze Bilderberg, del finanziere Soros o delle compagnie Big Pharma per spacciare vaccini e autismo, o un duro di Alt Right, destra nazionalista filo Trump che odia i media. È Mark Thompson, a lungo inviato e manager della Bbc, oggi amministratore delegato del New York Times con l’incarico, tostissimo, di traghettare il giornalismo nell’era digitale, senza che gli azionisti rinuncino ai profitti.  

Addio alla critica  

In un libro pubblicato al volo da Feltrinelli, l’edizione inglese è di pochi mesi fa, La fine del dibattito pubblico, come la retorica sta distruggendo la lingua della democrazia (traduzione di Giancarlo Carlotti), Thompson offre un punto cruciale: la crisi dell’informazione classica, quella che lo studioso tedesco Jurgen Habermas aveva definito, nella sua tesi di laurea del 1962 Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza) «la sfera critica dell’opinione pubblica», non è solo un guaio per il lavoro dei giornalisti o i bilanci degli editori, è malattia fatale della democrazia e delle società aperte. Senza un’informazione equilibrata, razionale, condivisa, pronta a correggere anche i propri errori e distorsioni, argomenta con grazia Thompson, il male antico denunciato nell’Atene dei Sofisti e di Socrate, l’avvelenarsi della democrazia in demagogia, inquinerà web e XXI secolo a morte.  

 La rete buona, la rete cattiva  

Thompson è lesto a affrontare il dibattito contro le illusioni dei pionieri della rete, ingenuamente persuasi che la «Rete Buona» avrebbe dissolto le bugie nefaste degli old media. Fu per primo il cardinal Carlo Maria Martini, sul Sole 24 Ore, a meditare sul tema nel 2010, discutendo di «tenebre e luce» online: il web non è infatti l’arma dei Buoni contro i Cattivi, ma campo di battaglia in cui Bene e Male si affrontano. Se Casaleggio padre, nell’ultima intervista al Corriere della Sera, insisteva ancora nell’effimero sogno del Web Redentore, adesso Beppe Grillo prende atto, con le disavventure della sindaco Raggi e delle primarie falsate a Genova, che «Chi di Rete ferisce, di Rete perisce». 

 

La via della menzogna  

Il valore del saggio di Thompson, lettura obbligatoria per i giornalisti, è nel rendersi conto di quanto antico, e complesso, sia il problema. I due clamorosi casi politici del 2016, le vittorie di Brexit in Gran Bretagna e di Donald Trump in America, condividono infatti l’uso spregiudicato della lingua politica, la convinzione profonda che l’opinione pubblica non sia ormai «critica» come la disegnava Habermas, ma «acritica», indirizzata dai social media nelle plumbee «Camere dell’eco», dove tutti i membri sono sempre d’accordo tra loro, preferendo la propria menzogna alla verità non condivisa. Non è vero che l’Europa dissanguasse le casse britanniche o che avrebbe mandato in bancarotta la sanità di Sua Maestà, ma le due menzogne hanno trionfato. Non era vero che Obama fosse un musulmano africano, che la Clinton indulgesse in party pedofili in pizzeria, che il Papa avesse espresso ammirazione per Trump, ma ciascuna di queste false notizia ha dato una mano alla campagna del candidato outsider. 

Elitismo e puzza al naso  

La retorica, osserva Thompson, ha sempre utilizzato enfasi, esagerazioni, magniloquenza, anche in leader brillanti come Obama, Blair, la Thatcher, Reagan, nell’antichità Demostene e Cicerone, nel XIX secolo il presidente Lincoln. La novità sta nella scala, la potenza turbo che il web concede alle menzogne, le «verità» farlocche, i falsi totem creati da regimi, sette, lobby. Thompson è critico anche con i giornalisti, che accusa, non a torto, di elitismo, puzza al naso e, colpa ancora maggiore, di Sindrome del Pubblico Ministero, usare interviste, talk show, reportage, cronache, come strumenti di inquisizione per far «confessare» il presunto colpevole, il «politico», il «potente». Il giornalista non è più cronista che cerca la verità con modestia e umiltà, ma secondino, il cui mestiere è spiare e fare cadere in contraddizione il prigioniero. 

 

Ritrovare l’equanimità  

Questa albagia, che già Camus e Orwell, cui Thompson dedica un intero capitolo, avevano deprecato, ha reso i media non credibili per un pubblico rissoso e malmostoso, polarizzato e reso irascibile dalla crisi economica. L’autore ha il compito gravoso di risolvere il dilemma, in prima linea, al New York Times, e in queste pagine propone soluzioni «old fashioned», ma di buon senso: ai media equanimità e serenità, ai politici meno petulanza arrogante, demagogia e più raziocinio, ai cittadini meno indulgenza con i populisti e maggiore attenzione alla verità. È base di partenza obbligatoria, ma non basterà, purtroppo. Servono anche studio dei Big Data, loro narrazione e analisi con gli strumenti digitali, e serve passione per la verità, come Aristotele predicava nella sua «Metafisica». Nichilismo e «postmodernismo» hanno seminato a fondo la zizzania del «Vero e Falso sono due uguali canovacci narrativi». Nei cenacoli dei seguaci di Derrida, fumando Gitanes, era snobismo elegante, nelle piazze ha acceso incendi.