Non chiamiamole più «fake news», false notizie, chiamiamole per quel che sono davvero, «disinformazione», manovre globali per creare in quantità industriale, con l’appoggio di Stati, lobby e poteri occulti nascosti nel web, campagne di menzogne ad hoc per inquinare il libero dibattito delle nostre democrazie: questa la scelta del Rapporto finale dell’High Level Group convocato dalla Commissione Europea per combattere il fenomeno.  

Il Rapporto, presentato ieri dalla Commissaria Digitale Ue Mariya Gabriel e dalla presidente Madeleine de Cock Buning, non è punto d’arrivo ma di partenza, e vale la pena di esaminarlo, dopo le elezioni Usa e Brexit 2016, la Francia 2017 e certi focolai sospetti in Italia 2018. 

Il commissario speciale Usa Mueller, che indaga sulla disinformazione russa, ha già incriminato i capi dell’Agenzia Ricerca Internet che, da San Pietroburgo, diffondono odio online, come denunciato per prima da «La Stampa».  

Oggi «fake news» è slogan che avversari politici e media usano come clava, uno contro l’altro. Per il presidente Trump sinonimo di giornali e tv ostili, per il presidente Putin irrisione delle democrazie, per tanti bloggers quel che pensa il vicino di casa. Giusto quindi lasciare da parte una definizione che fa evocare censure e ministeri della Verità. Nessuno ministro ha il diritto di decidere se una notizia sia vera o falsa, di imporre il metro ufficiale ai fatti. La libertà di parola - anche per la nostra Costituzione - non vieta di credere alle fole: scrivere online che i vaccini danno autismo mette a rischio tanti bambini, ma non è reato. Le leggi correnti invece penalizzano le campagne di calunnie ad arte, sostenute con documenti fasulli, false identità digitali, cyberwar, perfino in America, dove il Primo Emendamento alla Costituzione sulla libertà di parola è limitato dalla sentenza della Corte Suprema 1964, «New York Times versus Sullivan», che vieta «sfrenata malafede» nel diffondere notizie false. 

Il rapporto dell’High Level, prodotto con giorni di discussioni serrate, riconosce che le «fake news», male pur ancora limitato per dimensioni, sono sindrome fondata nella crisi di sfiducia che oppone opinione pubblica, élite, intellettuali, polarizzando contro ogni idea, o evento, che contraddica il credo del momento (il lettore troverà nelle cronache politiche italiane in corso abbondante materiale documentario in questo senso). 

La malattia è il rancore e la sfiducia tra noi, che uno studio Rand chiama con amarezza «decadenza della verità», il sintomo la disinformazione. Per questo il Rapporto Ue parla di e-education, ripartire dalle scuole per insegnare come informarsi, criticamente, online, chiedendo ai media trasparenza, per esempio su bilanci e pubblicità (troppi siti lucrano pubblicità per padroni occulti), offrendo così ai cittadini e ai giornalisti (anche con corsi di formazione su Big Data e reti) le informazioni necessarie per fiutare e sradicare le notizie false, difendendo un ecosistema aperto all’informazione. Le grandi piattaforme, Facebook, Google, Twitter, Apple, non devono prosciugare le voci minori, né moltiplicare a pagamento la disinformazione, ma promuovere la diversità e le fonti autentiche. 

È una originale battaglia, il XXI secolo digitale contro la Seconda Guerra Fredda, una tecnologia nata per il dialogo presa in ostaggio dall’intelligence militare. Il Rapporto cita, in un delicato passaggio, come la prima linea di difesa sia all’Est europeo, ai confini con la Russia, esposto, vedi paesi Baltici ed Ucraina, alla disinformazione aggressiva. Al Rapporto l’Italia ha dato un suo contributo con i membri Gina Nieri, Oreste Pollicino, Federico Fubini e me. Abbiamo discusso, tra accordi e disaccordi, le esperienze di Mediaset, Bocconi, Corriere della Sera, Stampa, Luiss, e con i dirigenti UE che affiancavano la Commissaria Gabriel - Roberto Viola, Giuseppe Abbamonte, Paolo Cesarini, Alberto Rabbachin - provato ad accorciare le distanze tra giganti multinazionali del web e combattivi blogger Lillipuziani, mediando tra interessi e culture diverse. Quando il Rapporto è stato approvato, ho ripensato al filosofo Frank Plumpton Ramsey, genio giovinetto morto a 26 anni: la realtà ci rimanda inesorabile alla verità, la verità inesorabile alla realtà. E la verità prevale sulle menzogne, per doloroso che sia il nostro comune cammino di apprendimento.