Il destino del ceto medio è, in Italia, Europa ed America, il problema cruciale della democrazia. L’espandersi del benessere di piccola e media borghesia, un tenore di vita dignitoso per operai e lavoratori, ha permesso la stabilità di cui un governo democratico ha bisogno. 

 La globalizzazione dell’economia seguita all’apertura dei mercati alla fine del Novecento, la fine dell’industria di massa e la diffusione della tecnologia, fino ai prossimi sviluppi di robotica e stampanti 3D, hanno ridotto potere d’acquisto e status sociale di milioni di famiglie. Lo scontento che ne segue, la disoccupazione e la precarietà diffusa in ceti che avevano smesso di aspettare la fine del mese con ansia, scatenano un malcontento politico dalle conseguenze imprevedibili. 

 Marine Le Pen con il suo poujadismo di ritorno in Francia, il nazionalismo britannico di Farage, che ricorda il vecchio John Bull delle caricature Fine Settecento, i movimenti populisti in Europa dell’Est, Scandinavia e Finlandia, in America gli opposti radicalismi di Tea Party a destra e Occupy Wall Street a sinistra, da noi il Movimento 5 Stelle Grillo&Casaleggio, hanno la stessa radice. Il progresso che ci sembrava legge di natura, da nonni a padri a nipoti ogni generazione più benestante della precedente, s’è spezzato. Se il sobborgo di Ferguson, Missouri, brucia è perché troppi ragazzi neri non vedono futuro migliore, la polizia non sostituisce l’università e la fabbrica. Già nel 1989 il futuro Nobel per l’Economia Krugman metteva in guardia contro «The age of diminished expectations», l’era delle speranze in calando, stagione in cui il progresso economico si sarebbe grippato. 

 La Grande Crisi 2007-2008 è ancora, soprattutto in Italia, vissuta come passeggera, una delle «Congiunture» di cui i giornali dei nostri papà si lagnavano 50 anni fa, sotto l’ombrellone e con le note di Edoardo Vianello. Si tratta invece, secondo la definizione data da Raghuram Rajan - oggi governatore della Banca Centrale Indiana - a un seminario della Fondazione Italcementi, «della nuova normalità», il nostro presente, non futuro. Chi, pur con le migliori intenzioni, invoca i posti di lavoro perduti, picchetta le fabbriche, chiede a gran voce -con comprensibile nostalgia - le condizioni sociali e di mercato lontane può essere nobile, ma la realtà lo fermerà, come i mulini a vento disarcionano Don Chisciotte. 

 Riflettete sulla vostra giornata, al supermercato, alla pompa di benzina, in aeroporto, stazione, metropolitana, prendendo dei contanti al Bancomat, affittando un’automobile o comprando un libro o un pullover online: quanti posti di lavoro fantasma dietro ogni nostra attività, rimpiazzati dalla tecnologia! E dietro ogni oggetto quotidiano, auto, computer, frullatore, tv, sempre meno operai, sempre più macchine. Ceto medio addio. 

Agli inizi degli Anni Ottanta un metalmeccanico in America guadagnava 27 dollari l’ora, un operaio cinese era lieto di mettersi in tasca 16 centesimi di dollaro l’ora. L’operaio occidentale mandava il figlio a scuola o lo vedeva lavorare accanto in fabbrica, mutua e scuola dell’obbligo ok, si passava dalla tuta blu al colletto bianco. 

 Oggi, in America come in Europa, gli studenti che arrivano ai titoli di studio superiore hanno un carico di spese, personali o familiari, che li azzoppa quando devono poi chiedere il mutuo per la casa. Ikea arreda stanze a poco prezzo, non sogni di progresso sociale: nei romanzi dell’Ottocento un giovanotto ambizioso come Rastignac può gridare «A noi due Parigi!» e il 1968 fu il grido di una nuova generazione di ceti medi che chiedevano rappresentanza e voce, non solo benessere. Oggi? 

 Trent’anni fa studiosi come Sable, Piore, Bluestone, temevano la «società a clessidra», divisa tra i ceti che mancavano dei saperi della nuova economia in basso, e, in alto, quelli che li detenevano. Rivoluzione tecnologica e digitale e mercato globale hanno sgonfiato i lavori tradizionali del ceto medio senza sostituirli, abbastanza in fretta, con web e high tech economy. Il lavoro manca soprattutto per i giovani, ed è peggio pagato di trent’anni or sono. La generazione post 2008 langue inattiva, o fatica con salari inferiori, e più ore di lavoro. 

 Gli indicatori economici, studiati in un rapporto McKinsey, confermano che creare un network di economia digitale moltiplica lavoro e salari, e non sarebbe male che noi europei destinassimo meno soldi ai sussidi all’agricoltura, che ha poco lavoro in futuro, a vantaggio di ricerca e laboratori, vera miniera d’oro. 

È la strada da imboccare risoluti ma non è, purtroppo, breve. Nel frattempo occorrono misure per stimolare l’occupazione, investimenti nella scuola e nella formazione di chi il lavoro lo ha perso. I ragazzi non blaterano di «posto fisso», vogliono però una chance, e solo se Stato, aziende e centri di ricerca lavorano insieme, è possibile dargliela. Il tempo stringe. Chi ha 30 anni ed è a carico dei genitori, i pensionati che si vedono trattare da «ricchi» perché hanno, pagate le tasse, 1800 euro al mese vero welfare familiari per figli e nipoti, chi a 50 anni ha perso stipendio e status sociale, non possono più attendere. Presto delusione, rabbia, senso di ingiustizia subita, divamperanno in politica, e il più populista degli slogan di oggi ci sembrerà bonario Mulino Bianco. Dove il ceto medio s’è espanso dal XIX al XX secolo, nel mondo anglosassone soprattutto, la democrazia ha retto. Quando, dopo la I guerra mondiale, i ceti medi europei hanno avuto paura del futuro, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, o dove non erano abbastanza radicati come in Russia, la democrazia è esplosa. Può accadere di nuovo.