Avevamo scritto che quelle di Londra sarebbero state le Olimpiadi delle Donne e dei Social Media ma non avremmo mai immaginato una nuotatrice più veloce degli uomini come la cinese Ye Shiwen, né che Pechino la difendesse dalle accuse di doping online, mobilitando il canale ufficiale dei blog Weibo. E chi poteva pensare ad atleti squalificati per messaggi su Twitter, giornalisti scacciati per un tweet ostile al gigante tv americano Nbc, e poi frettolosamente reintegrati, tifosi arrestati per critiche via web a un campione?

Andy Miah, docente di New Media all’Università del West Scotland, parla già di «Ingenuità: gli atleti non sono preparati ad usare Facebook e Twitter non più tra amici, ma davanti al mondo intero». La Papachristou, triplista greca cacciata dal Villaggio Olimpico per un tweet razzista a luglio, usava i new media da pochi giorni, ignara della differenza tra casa propria, Internet, il mondo. Stessa sorte al giocatore del Palermo Morganella, nazionale svizzero, squalificato per razzismo online contro i coreani. Per due nuotatori australiani, D’Arcy e Monk, una foto su Facebook in posa con pistole autentiche come i gangster è bastata a far scattare la squalifica della Federazione: finite le gare a casa, e per due mesi nessun accesso online.

È la condanna più dura per i ragazzi del Villaggio, la censura di Internet, spento il computer, bloccato Facebook, niente smartphone. Scambiano il web per una festicciola tra amici, e si perdono in diretta globale. I new media sono esplosi, nella società e nello sport, nei quattro anni dai Giochi di Pechino a quelli di Londra. Allora i tweet, messaggini di 140 lettere con cui ci si tiene in contatto con amici per i teenager, con i fans per i campioni, furono solo 300.000 al giorno, oggi sono 400 milioni. Twitter aveva 6 milioni di iscritti, oggi ne ha 150 milioni. Facebook nel 2008 era usata da 100 milioni di persone, ora sta per diventare la «nazione» più popolosa al mondo, 900 milioni di cyber-cittadini. Il Consulente del Cio von Hoffman calcola che tra computer e telefoni un miliardo di persone seguiranno i Giochi on line. È stata perfino creata una truffa elettronica ad hoc che distribuisce finti premi per una Lotteria Olimpica.

Le Olimpiadi di Londra si erano aperte al web, nominando perfino – reazione tipica della burocrazia a 5 cerchi - un Direttore Social Media, Alex Huot, e stilando - poteva mancare? - un «Codice d’onore» per gli atleti, obbligati a non twittare giudizi sulle gare, gli sponsor (ovvio), gli avversari, nulla di «volgare» o «disonorante». Ma i concetti di estetica, gusto ed onore di un teenager, atleta o tifoso che sia, non coincidono, per esempio, con lo stile del Principe Filippo, ex presidente Federazione Equestre, che in Borsalino di paglia e cravatta regimental a 91 anni ha seguito la nipote Zara medaglia d’argento nell’ippica. Le prime Olimpiadi online attraggono squalifiche, titoli sui giornali e lo studioso William Ward annota sgomento «La regola non scritta “Omertà su quel che succede al Villaggio Olimpico” finisce con le foto su Twitter e Facebook».

Il grande giornalista Gianni Brera favoleggiava degli amori del discobolo Consolini a Londra 1948, o del flirt tra gli sprinter Berruti e Wilma Rudolph a Roma 1960: oggi avremmo le prove online, senza pudore per i poveri innamorati. Le stelle del basket Usa lanciano le foto dei compagni, mezzo addormentati con una coperta e la mascherina sugli occhi, su un altro social media, Instagram. Al Villaggio si entra dopo lunghe perquisizioni ai posti di blocco della Stazione di Stratford, oppure senza controllo alcuno dall’ubiqua Stazione Internet.

La licenza e la libertà globali non tradiscono solo gli sportivi. Un tifoso, depresso perché il tuffatore inglese Daley non ha vinto l’oro, lo insulta su Twitter «Hai deluso tuo padre», ignaro pare che papà Daley è morto per un cancro al cervello un anno fa. Il tuffatore si lagna dell’aggressione informatica, e la polizia, identificato l’utente nascosto dietro la sigla anonima @Rileyy_69, addirittura lo arresta. Zoe Smith, campionessa inglese di sollevamento pesi, finisce vittima dei «trolls», perdigiorno senza nome che si divertono a insultare online a casaccio. Dopo la gara li manda a quel Paese, denunciandoli in diretta tv.

Anche i giornalisti sono travolti nel pugilato senza esclusioni di colpi della Rete. Guy Adams, corrispondente da Los Angeles del quotidiano inglese «The Independent», irritato perché la rete tv Usa Nbc non manda in diretta i Giochi Olimpici, ma in differita, a sera, in cerca di pubblicità, definisce su Twitter il presidente Nbc Olympics Gary Zenkel, «un cretino da licenziare». Zenkel si sarà rivolto ai dirigenti di Twitter che scacciano Adams. Salvo poi davanti alle proteste riammetterlo in tarda serata. Nbc sta bilanciando bene i due media, il nuovo web e la vecchia tv, distribuendo i filmati online a 11,4 milioni di persone, e poi rimandandoli in tv in prima serata. Ascolti ottimi, 36 milioni, più di Atlanta ’96 e Pechino ’06. La differita costa critiche online? Zenkel spera che la lezione inflitta ad Adams moderi gli umori. Perfino il musicista Philip Sheppard, che ha arrangiato la musica degli inni nazionali per le premiazioni nello storico studio Beatles di Abbey Road, s’è visto minacciare di morte su siti, non sempre innocenti, in Colombia: «L’inno colombiano è stato definito il peggiore di tutti!».

La verità è che nessuno al Villaggio Olimpico, sportivi, burocrati, media, tifosi, era pronto al corto ritmo frenetico Internet & Cinque Cerchi. I telecronisti del ciclismo, abituati ad avere in bassa frequenza i risultati parziali delle corse, hanno visto lo spazio occupato dai tweet e chiesto al Cio censura preventiva, negata stavolta. La portiere del calcio Usa Solo rimbecca una telecronista, dubbiosa sulla difesa a stelle e strisce: «Stai zitta, il calcio è cambiato dai tuoi tempi!». La Cina occupa il suo web nazionale, detto Weibo, per difendere la nuotatrice Ye Shiwen dalle accuse di doping, «Usa imperialisti! Noi non insultiamo Phelps!». I troll anonimi, abituati a calunniare senza rischi, meditano per la prima volta sulla chance di finire in cella. Ai Giochi di Rio 2016 saremo tutti abili nell’uso della Rete, come Frangilli nel tiro con l’arco. Per ora, tanti mancano il bersaglio e si infilzano a vicenda. Forse il Comitato Olimpico dovrebbe arricchire l’inutile «Codice d’onore web» con la prima legge del cibernetico Melvin Kranzberg: «La tecnologia non è buona, non è cattiva e non è neppure neutrale». Come una freccia, la tecnologia può infilzare il generoso Robin Hood o il perfido Sceriffo di Nottingham, ma non è mai innocua. Meglio ricordarsene, ai Giochi, in politica, al lavoro, in amore, nella vita.