Tutto comincia con il vicepresidente Al Gore, a caccia della Casa Bianca 2000 contro il repubblicano G.W. Bush, e un’intervista alla «Cnn», che oggi il presidente Trump chiama «La Falsa Cnn».

Gore dice di aver aiutato, da senatore, «la creazione» di Internet. È vero, i pionieri web Vinton Cerf e Robert Kahn lo confermano, ma di mail in mail parte il tormentone irridente dei primi troll – «Gore inventore del web Ah Ah» – danneggiando il democratico, dipinto dal guru di Bush, Karl Rove, come un insopportabile secchione.  

Alba della politica digitale, ancora non se ne intuivano i confini. Ieri Donald Trump jr, figlio del presidente, ha pubblicato le sue controverse mail con oscuri emissari russi, in aria di servizi segreti Fsb, scommettendo che la pubblicità spenga polemiche e processi. L’avvocato di Bush figlio, Richard Painter, non ha dubbi: «Trump jr è a un passo dall’alto tradimento», il sito Vox non vede invece prossimo l’impeachment, tutti restano con gli occhi aperti: perché email e web son diventati giungla di intrighi e manovre. Altro che Gore, Machiavelli ha inventato il web! 

Quattro anni dopo, Nicco Mele, un volontario annoiato, prova a entrare a un comizio di Howard Dean, candidato ribelle democratico contro la gerarchia del partito, ma il bar è stracolmo e resta fuori. Prova invano a seguire il discorso online, il sito fa schifo. Allora, di tasca propria, compra spot su Google, chi cerca via Gmail o motore di ricerca notizie su Dean, riceve banner con il calendario dei comizi. Successo formidabile, tanto che Google manda a Nicco una salata parcella. Disperato, lui scrive alla campagna di Dean, «Funziona, ma pagate, io non ho un soldo».  

Una mail gli replica asciutta: «Non ci capiamo nulla, vieni qui, lavora per noi». Nicco Mele, oggi docente a Harvard, e la sua interlocutrice mail, Zephyr Teachout, giurista a Fordham University, sono considerati tra i fondatori della politica web, ma pensavano a un uso aperto, non di trame. Dean apre la stagione del fund raising via mail, divide gli elettori in tribù per seguirli con messaggi ad hoc. Nascono le due formidabili banche dati, Demzilla, che raccoglie informazioni sui democratici, e Cassaforte, dedicata ai repubblicani. I partiti perdono la voce singola, come al comizio in piazza con il megafono, e diventano capillari: gay, ricchi, cacciatori, casalinghe, sportivi, vegetariani, operai, femministe, snob, ciascuno riceve messaggi individuali, via Facebook o Gmail. 

Il giorno del voto i primi sondaggi assegnano la vittoria a John Kerry (resta celebre la prima pagina del Manifesto con la notizia sbagliata), perché redatti via mail, e sul web i democratici erano più presenti dei repubblicani, come nel 1948 il Chicago Tribune aveva anticipato, sbagliando, la vittoria di Dewey sul presidente Truman, fidandosi di un sondaggio al telefono, ignaro che i repubblicani, abbienti, ne avevano in casa più degli operai democratici. Con Obama il potere di dati, mail, web si fa assoluto, come volantini, ciclostile, radio libere tra 1968 e 1977. Demzilla batte Cassaforte, nel 2008 e 2012, ma i russi, dal laboratorio troll di via Savushkina, San Pietroburgo, imparano che nel web si combatte meglio al buio.  

Le rivelazioni Wikileaks, Assange, Manning e Snowden dipingono la rete da caserma di spioni Nsa, le soffiate sempre a una sola direzione, contro Washington mai Mosca o Pechino, cambiano il digitale in trappola per le democrazie e trincea per i regimi autoritari. Hillary Clinton si vede costretta alla difensiva per aver usato un server mail privato, e non quello del Dipartimento di Stato, da ministro (secondo l’esperto di dati Nate Silver il caso le costerà le elezioni), Demzilla viene violata e le mail di Podesta, capo dello staff, vanno in piazza. Destino amaro, che il generale Petraeus, capo della Cia, condivide, anche le sue incaute mail private all’amante diventano pubbliche. 

Oggi i leader, mandando una mail, sanno di poterla rileggere in prima pagina e homepage. La rete è un’arma, come quella antica del gladiatore reziario al Colosseo, chiunque può finirci dentro. Lo sa il commissario speciale, ex capo Fbi, Robert Mueller. Se non i dolori, almeno le mail del giovane Trump, con altre ancora segrete, scorrono sul suo monitor a Washington. Presto potremmo leggerle anche noi.