«Fare il minatore, nel Kentucky orientale, non è un lavoro, è un modo di vivere. È la tua esistenza, la tua cultura. Una fratellanza umana, che sfama e manda i figli al college, grazie a chi invece scende sottoterra senza poter studiare. La miniera è lavoro onesto, duro, manuale, ingrato, crudele, spoglio e pericolosissimo. I minatori hanno costruito l’America. Sono gente fiera, non ignoranti subumani. Sono fieri, l’avete capito?». 

Rifletto su questa commossa difesa dei minatori del Kentucky, dai viali assolati della cittadina di Frankfort. Nel 1780 gli indiani uccisero sulla riva del fiume Kentucky un pioniere di nome Frank, e i compagni gli dedicarono il villaggio. Gli eredi del povero Frank hanno ora portato alla vittoria Donald Trump, umiliando la Clinton, i minatori odiano gli accordi di Parigi firmati da Obama, perché chiudono la loro storia pur di ridurre l’anidride carbonica. Quando Trump promette, «Straccio il patto contro i gas serra!» applaudono, battendo i piedi con gli scarponi Timberland gialli. Sono ormai rimasti in pochi in vallata, 6900, meno che nel 1898, gli ultimi licenziamenti di febbraio, 1500 senza lavoro. Gli altri a vivere arrangiandosi, poco nobile per chi «ha costruito l’America ed è fiero», «Negli anni Venti ogni anno la popolazione raddoppiava». 

 Gli ambulatori a Frankfort curano «black lungs», polmoni neri, le malattie professionali dei minatori, ma la disoccupazione è la malattia peggiore. Chi è «fiero» di avere «costruito il Paese» soffre poi di alcolismo, eroina, solitudine, depressione, divorzi, suicidi. La vita media degli operai non cresce, torna ai tempi del pioniere Frank. 

Sul viale centrale di Frankfort, Broadway, si apre la libreria «Poor Richard», che da 40 anni è amministrata da Lizz Taylor, «visita la soffitta, ci sono migliaia di libri antichi», e quando salgo le scale cigolanti entro davvero nella Caverna di Ali Babà, con i volumi che Signori e Signore leggevano quando i minatori scavavano. Su una copia del Faust degli Harvard Classics, la collana che «ogni uomo colto deve leggere per 15 minuti al giorno», un nome scritto col pennino, «Margaret Swift» e la data «1911». «Il carbone permetteva agli aristocratici di studiare Goethe e ai poveri di non morire di fame come sui monti Appalachi era la regola. Io ho votato Hillary, ma capisco chi vota Trump. Sanders era troppo di sinistra, Hillary troppo moderata. In mezzo s’è infilato Trump» conclude saggia Lizz. 

Attraversato un vicolo, vedete la vetrina brillante di Kentucky Knows. La porta la apre il proprietario, Tony Davis, orgoglioso di esporre su un manichino la divisa da marine, «Ho servito nel corpo per 4 anni, qui molte famiglie sono militari, alcune hanno combattuto con Washington». Tony compra centinaia di botti usate del bourbon, il whiskey locale che ha reso lo Stato, con il derby dei cavalli e il cocktail alla menta «Mint Julep», famoso. Poi le smonta, doga per doga, e ne ricava mobili d’arte fantastici, legno ricco, grasso, stagionato. Tony, e il suo amico John, invitato a bere un caffè al bourbon, sono cauti, «il popolo ha parlato, siamo ex militari, il presidente è Capo delle Forze Armate», poi si sciolgono, «non era una scelta felice ok? Ma Hillary ci veniva addosso, qui la gente ha paura. Sa cosa fanno per eliminare la povertà dalle vallate più misere? Danno sussidi alle famiglie, perché traslochino dove possono sperare in un lavoro. Vai a vedere i traslochi, si spezza il cuore, qui tengono in soffitta le medaglie del trisnonno alla Guerra Civile, le pallottole Miniè, che si trovano nei boschi», rozze munizioni che aprivano ferite curabili solo con amputazioni e sega da falegname. 

«Siamo americani, dobbiamo unirci» dice Tony. Ieri era Veteran’s Day, il giorno dei veterani militari e nel patriottico Sud garriva ovunque Old Glory, la bandiera a stelle e strisce. Nel cimitero di Versailles, una dolce collina alla Spoon River, una bandierina su ogni lapide di ex soldato. E davanti al ristorante Cattleman, specialità costolette di porco fritte con le cipolle, passeggia John Howard, il cappello con le decorazioni e la scritta «Reduce di Corea e Vietnam» calcato in testa. Nel 1957 il presidente, ed ex generale, Eisenhower teneva, prudente, in Vietnam solo 693 militari americani, sceltissimi uomini di intelligence e controguerriglia. Howard era uno di loro, già reduce del gelo coreano, poi Francia, Italia, Germania: «La scelta politica era mediocre, il Paese è spaccato. Tu da dove vieni?» intima con tono da ufficiale. New York Sir. «Ah un maledetto yankee, un nordista eh, li detestiamo qui quelli come voi» e ride con occhi felici. Poi si fa serissimo «Nulla per noi ex militari è doloroso come l’America che si odia, tra fratelli. Dobbiamo andare avanti. Trump è presidente? Spero faccia del bene all’esercito». 

 

Nelle grandi città, militanti di sinistra, che spesso non hanno neppure votato Clinton, marciano in strada, pochi ma con al seguito telecamere e web. Trump, abile, ne approfitta e denuncia gli intolleranti. Qui, nel Trumpland profondo, non trovate invece neppure una voce rauca. Ogni elettore democratico, Lizz, o la sua commessa Kathy, soavi capelli grigi, «lo so, a Hollywood mi darebbero la parte della bibliotecaria in un giallo!», difende i minatori che votano repubblicano. Fascisti! gridano a Broadway, New York. Brava gente che vuol vivere, spiegano a Broadway, Frankfort. 

Rimugino le parole così forti, «Fieri, hanno costruito l’America i minatori», ascolto vicende come quella di Gary Hall, caposquadra per 33 anni sottoterra, ultimo lavoro a Pike County, disoccupato dal marzo 2015, «niente mutua e purtroppo noi ci ammaliamo spesso. Dopo una vita in miniera mi ci vedi a fare la guida turistica?». 

Con i prati di bluegrass, i vigneti, i cavalli a guardare dagli steccati, Eastern Kentucky è meraviglioso, ma pochi turisti sono attratti dalle distillerie pregiate del Bourbon, «abbiamo inquinato, scappano» lamenta Lizz Taylor. Per questo qui il livore dei cortei non arriva. Le parole di nostalgia per i minatori che votano Trump, orfani del loro piccolo mondo antico, sono di Ivy Brashear, gay, femminista, blogger Huffington Post, militante di Hillary, «ma con la famiglia qui da 10 generazioni». «Io temo la presidenza Trump come donna, come queer, come progressista - spiega Ivy - Ma non odio né incolpo i minatori e chi lo ha votato qui, perché non siamo né diversi, né nemici, siamo la stessa cosa, gente del Kentucky. Lo so, la pensiamo in modo opposto, ma non siamo quella robaccia cui questa elezioni ci vogliono ridurre. Siamo cresciuti insieme nelle valli, famiglie numerose e unite, la luce fino a tardi in estate, i cani che si chiamano di collina in collina e Nonna che prepara cena per un esercito. Non abbiamo vicini di casa, abbiamo amici e dobbiamo trovare subito insieme un porticato con le dondolo e ragionare, uniti contro i Politici che non ci capiscono, divorando pomodori in insalata». 

Lascio Frankfort con nello zainetto il caffè aromatizzato al bourbon regalo di Tony, un libro di poesie del ’32 della Lizz e la certezza che se Hillary avesse avuto Ivy Breashar come consulente, anziché i parrucconi dell’immagine laccata, ‘ste elezioni non le perdeva.