Matteo Renzi ha, di slancio, presentato la propria leadership di segretario del Pd come campione dell’innovazione, politico nuovo, capace infine di trascinare la sinistra e il paese nell’era digitale e postindustriale.  

 Era digitale e postindustriale dove produzione, cultura, vita non sono più «mass», come nel Novecento, ma «personal», individuali e originali. 

 Stupisce quindi che il suo messaggio sia, in queste ore, contraddetto dalla battaglia che vari esponenti Pd, Boccia, Covello, Fanucci tra gli altri, ingaggiano in Parlamento a favore di una «tassa web», «tassa Google«, che nega in radice l’impegno di innovazione di Renzi. Vediamo perché. 

 Nelle intenzioni dei promotori, in testa il presidente della commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia, la tassa web ha nobili intenzioni, da Robin Hood che vuole bloccare gli ignobili sceriffi della Web Foresta di Nottingham, Google, Facebook, Twitter, Amazon. Secondo Boccia si tratta «Soltanto di una misura di equità fiscale: se l’azienda di Brescia o di Catania deve pagare un’imposta per ciò che ha guadagnato in Italia, altrettanto devono fare le multinazionali del web che guadagnano nel nostro Paese e che oggi, incredibilmente, pagano le tasse in Paesi che hanno un’aliquota più conveniente. Si tratta dei principi basilari dell’equità fiscale, sociale e produttiva» e l’esponente Pd è talmente persuaso della sua tesi, che in varie dichiarazioni cita oltre a Brescia e Catania anche Busto Arsizio e Matera. Come dissentire? Perché mai il gigantesco motore di ricerche da cui passa oltre il 95% delle nostre domande sul web dovrebbe non pagare tasse, mentre a Brescia, Catania, Busto Arsizio e Matera si cede ad odiosi balzelli? 

 Purtroppo, come dimostra Tim Worstall sulla rivista Forbes, la tassa sarebbe illegale, e così la definiscono in America «Italy passes the illegal Google tax». Non vogliamo tediare il lettore con i dettagli fiscali, che già Raffaele Rizzardi, il massimo esperto italiano in materia di Iva, e componente del Comitato fiscale europeo, ha dettagliato con acribia. Basti qui dire che schiaffare l’Iva «italiana» sui prodotti venduti online, e, peggio, costringere virtualmente produttori, grandi e piccoli, ad aprire una partita Iva italiana per fare e-commerce nel nostro paese viola le norme europee. Mai la «tassa web» italiana passerà il vaglio di Bruxelles. 

 Come, dove e perché si paga l’Iva in Europa, online e offline, è dettagliato con chiarezza dall’Unione, e per di più l’Italia è vincolata da trattati contro la doppia imposizione fiscale con altri paesi. Rimandiamo dunque volentieri Boccia e i suoi colleghi ai documenti di Rizzardi e Worstall, o, ove li ritenessero fonti di parte, al loro autorevole collega parlamentare G. P. Galli, che ha già segnalato come la tassa non funzioni. Imporla è impossibile, l’Ue la rimanderà al mittente, e nel breve periodo in cui il fisco italiano avrebbe la chance di mungere oltre a Busto Arsizio e Matera anche Google e Amazon, i proventi sarebbero grami. Il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè della Bocconi li riduce a una scodella di lenticchie, tra 15 e 20 milioni di euro l’anno. Ma questa scodella di lenticchie, come nel caso di Esaù, costerà all’Italia il sogno di primogenitura digitale nel futuro. 

 È questa la posta in gioco: non i soldi delle tasse, non l’infantile orgoglio di umiliare i giganti del web forzandoli ai nostri dazi, non una ripicca interna alla sinistra tra tradizionalisti e innovatori. Fare dell’Italia un mercato in cui il digitale, l’innovazione è mal vista, male accolta. Da settimana si rumina di «web tax», nel frattempo gli uffici di Milano di Google sono stati attaccati da dimostranti contro la raccolta dei metadati Nsa della Casa Bianca di Obama (Google ha già chiesto all’amministrazione, con altre aziende, di cambiare la legge sulla sorveglianza, detestata dalle corporations) e infine Apple è al centro di un’indagine dalle nostre autorità fiscale. 

Renzi sa che, come scrive il professor Enrico Moretti nel saggio «La nuova geografia del lavoro», il web crea, non distrugge lavoro. Gli uomini di Confindustria digitale, diretti da Stefano Parisi, o la McKinsey, calcolano quanto, ogni euro di investimento in innovazione, ricerca, scuola e tecnologia generi occupazione, diretta e indiretta. Perfino Beppe Grillo, celebrato su YouTube per la spassosa gag in cui distrugge computer sul palcoscenico, s’è reso conto della gaffe dei suoi parlamentari 5 Stelle che appoggiano la «tassa web» e li smentisce bocciandola. Con un gioco di parole sul nome del promotore, su twitter gira l’hashtag, la parola chiave, «#Boccialawebtax». E chi si illudesse di ricavare dalla pressione su Google vantaggi sui contenuti giornalistici, sbaglia. Noi non siamo fan dell’accordo che Google ha stipulato con gli editori francesi, ma per quell’accordo s’è mosso il presidente Hollande in persona. Se i giornali italiani ne vogliono uno analogo, o speriamo migliore, deve muoversi il governo, non bastano gli editori. 

 Vedremo se Renzi, che ha di fronte due gruppi parlamentari in cui i suoi uomini e donne sono in minoranza, terrà duro contro il balzano balzello o se cederà ai luddisti fiscali Pd. La partita dirà parecchio di come intende muoversi nel partito. Per tutti noi dire di no alla «tassa web» vuol dire schierarsi contro i dazi al futuro: davvero li vogliamo? È ovvio che i giganti digitali devono pagare le tasse come tutti. La sede per imporglielo è l’Europa, non una furbata nostrana. Anche in America un regime fiscale per il web è tema cruciale, ma anche lì la risposta è federale, globale, non casareccia. Tocca a noi decidere se vogliamo un’Italia del XXI secolo, o una Italietta da Strapaese.