Che il più grande sindacato italiano abbia ancora notevoli capacità di mobilitazione è indubbio. La Cgil porta in piazza un milione e mezzo di persone (secondo gli organizzatori) e riceve l’adesione di buona parte del partito di maggioranza relativa in parlamento. Dal punto di vista comunicativo può permettersi la scelta di un hashtag scioglilingua, improbabile, tanto la partecipazione social è assicurata ( #tutogliioincludo straccia #jobsday della Cisl per numero di citazione su Twitter nelle relative giornate). Contro il Jobs Act renziano e la Legge di Stabilità si può permettere la produzione di divertenti cinegiornali satirici a firma di Paolo Hendel e una puntata pilota di una fiction tv, presente anche su corriere.it, pleonastica e macchiettistica, ma con autori di rilievo.

Eppure secondo diversi sondaggi la larghissima parte degli italiani (il 71% secondo Ixè per Agora-Rai3) non avrebbe fiducia in loro. Difficile valutare se questi numeri siano in connessione con il dimezzamento di quelli della piazza, rispetto a quei 3 milioni che nel 2002 si riunirono al Circo Massimo. Senza contare che allora era bastato il tema dell’articolo 18 per aggregare consenso, mentre oggi gli interventi contestati sono diversi.

Difficile capire anche quali effetti avrà la manifestazione di sabato nelle economie dell’adesione al sindacato. Di certo però la mobilitazione ha confermato lo scontro frontale con il Governo, nonostante la riapertura della sala verde e la nuova convocazione di ieri, finita con una nuova delusione per la Cgil. Il discorso del segretario generale Susanna Camusso aveva rinnovato l’opposizione alla politica renziana su tutta la linea, concatenando una lunghissima serie di negazioni e ammonimenti. Un solo rinvio alla campagna svolta dalla CGIL per la presentazione del suo Piano del Lavoro, una proposta basata sull’investimento pubblico. Probabilmente richiamarne i contenuti in maniera più esplicita in questo contesto, dalla risonanza mediatica imparagonabile, avrebbe messo il segretario e il suo sindacato al riparo dalla più naturale delle critiche: un attacco senza controproposte è una mera difesa.

Nel frattempo sul palco della Leopolda, giunta al quinto appuntamento (che, per inciso, sul fronte social ha sconfitto ampiamente a sua volta #tutoglioincludo), andava in scena la sfilata degli imprenditori. E il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi dal convegno dei Giovani Imprenditori a Napoli rispondeva in diretta al discorso della Camusso: “uno sciopero non è quello che serve in questo momento”. Piuttosto servirebbero, sempre secondo Squinzi, le infrastrutture digitali per richiamare investimenti stranieri e favorire quelli delle imprese italiane. Auspicio ribadito poi ieri durante l’incontro tra governo e parti sociali.

Scremati gli elementi di contrapposizione il punto in comune delle critiche rivolte al disegno di legge di stabilità presentato mercoledì sera alla Camera è proprio quello degli investimenti.

La loro mancanza e l’organizzazione del lavoro in Italia hanno determinato una vittima illustre almeno negli ultimi dieci anni: la produttività. I numeri raccontano chiaramente questa storia, ma il dato più interessante è che ciò è avvenuto in una nazione che, nonostante i cali di consenso, ha il tasso di sindacalizzaizione da sempre più alto tra i grandi paesi. La cd. Trade Union densitiy è una voce difficile da misurare nello stivale: l’organizzazione sindacale non è soggetta ad alcun obbligo di conteggio e comunicazione del numero degli iscritti. Tuttavia i dati raccolti dall’OECD combinando sondaggi e dati amministrativi sono chiarissimi: il rapporto tra lavoratori iscritti a un sindacato e il totale dei lavoratori è in Italia il più alto da quando si hanno dati disponibili. Per contro la variazione della produttività secondo l’elaborazione ISTAT dei dati Eurostat è rimasta ferma, almeno nel decennio 2000-2010. 

Union Density & Productivity

Sempre da Napoli anche il Ministro del lavoro Poletti ha indicato gli investimenti come fattore necessario al rilancio dell’economia, spingendosi a dire che gli incentivi a pioggia, sui quali pure è strutturata la legge di stabilità proposta dal governo, per il lavoro sono “tossici”.
È quindi sempre più chiaro che questa legge di stabilità abbia buone intenzioni secondo tutti gli esponenti del dialogo sociale, ma non ne accontenti pienamente nessuno. Frutto di un testo che tenta il difficile equilibrio tra la difesa dei conti e le misure espansive.
Mentre si discute di come agevolare le assunzioni, la legge di stabilità taglia però 200 milioni di incentivi alla contrattazione aziendale, per natura quella deputata al contemperamento della salvaguardia occupazionale con la produttività e la competitività. Fatto curioso visto che il premier aveva dichiarato solo il 30 settembre scorso di voler sfidare i sindacati proprio su questo terreno; sul quale per altro è impegnato il Ministero nell’ambito dei numerosi casi di mobilità aziendale aperti, ultimo quello di Meridiana.

La coperta dei conti rimane corta, la contesa parlamentare è appena iniziata, ma i tempi sono contingentati. Se la legge di stabilità cambierà almeno parzialmente volto sbilanciandosi a favore degli investimenti chiave per la competitività dell’industria italiana, si capirà presto.