In tempi incerti, nel mare delle previsioni economiche le bussole degli economisti distribuiscono indicazioni spesso contrastanti. Figuriamoci cosa possa succedere quando una pioggia di dati piomba in pochi giorni sulle scrivanie degli addetti ai lavori, come successo settimana scorsa.

Questa volta però, arrivano segnali che non si vedevano da tempo, e la lettura è quasi unanime: l’economia europea avverte qualche rivolo di vento in poppa più deciso del solito e l’ago punta verso un fatidico passaggio a nord ovest.

L’ottimismo è il profumo della vita. Lo diceva il raggiante Tonino Guerra in un famoso spot di una catena commerciale di elettrodomestici, nel 2003. Un anno certo di crisi economica, ma distante da quella globale iniziata cinque anni più tardi, al tempo prerogativa al più di qualche apocalittico visionario. Se l’ottimismo era invocato dalla taumaturgia commerciale allora, figuriamoci quindi quanto bisogno ce ne sia oggi.

La beffa epilogo di quello spot era però a suo modo premonitrice del rimbalzo imminente. E viene quindi oggi da domandarsi se all’entusiasmo della positività sollecitata nei cittadini, non sia saggio abbinare qualche messaggio meno rilassante per i governi.  

Solo il 16 gennaio la Banca D’Italia correggeva al ribasso le sue stime per il Pil del 2015, prevedendo una “crescita modesta” dello 0,4% rispetto all’ 1,3% stimato a luglio. Un’accelerazione sarebbe stata da attendere piuttosto nel 2016 (+1,2%). Per l’istituto di via Nazionale, determinante sarebbe stata non solo la ripresa degli investimenti, ma la sua intensità.

Nel frattempo però si sono determinate condizioni congiunturali che osservate insieme hanno solleticano le congetture degli esperti: un Euro più debole, tassi di interesse ai minimi e basso prezzo del petrolio. Un mix favorevole e incoraggiante.

Sulla svalutazione dell’euro si formulano quindi interrogativi fondamentali: si raggiungerà la parità con il dollaro? Durerà? Usa e Giappone resteranno a guardare? Quali reali effetti sull’export italiano extra-comunitario? L’export tedesco trainerà ulteriormente quello del nostro paese?

Poi dalla Banca Centrale Europea arriva il quantiative easing. Una misura largamente attesa, ma non scontata: storica nella la politica monetaria dell’Unione. Le incognite che precedevano la comunicazione ufficiale riguardavano a ben vedere “solo” l’entità degli acquisti (60 miliardi al mese anzichè i 50 pronosticati) e la ripartizione del rischio.

L’effetto della misura sulle aspettative dei portatori di interesse è evidente. Bankitalia rivede le sue previsioni: certamente l’Italia sarà fuori dalla crisi nel 2015 grazie all’intervento voluto da Draghi. Anche il Centro Studi di Confindustria fa le sue stime e comunica che la crescita è da correggere in positivo: +0,8 nel 2015 e +1% nel 2016.

Non tardano di molto le valutazioni di Prometeia: la crescita del Pil nel 2015 sarà dello 0,7% e 110 mila posti di lavoro in più arriveranno dal Jobs Act.

E’ il comunicato dell’Istat del 29 gennaio a introdurre la dimensione psicologica in questa serie di considerazioni sulle condizioni economiche. La fiducia delle imprese a gennaio raggiunge i massimi da settembre 2011 (passa da 87,6 punti a 91,6). Quella delle famiglie invece fa registrare il punteggio più alto degli ultimi sei mesi ( sale da 99,9 a 104) .

L’entusiasmo per i dati positivi sia su base mensile sia su base annua continua. Sempre il CSC rileva un aumento della produzione industriale dello +0,3% a gennaio (dato compatibile con quello misurato da Eurostat su novembre) e prevede un +0,5% complessivo nel primo trimestre.

L’Istat conferma poi i dati dell’agenzia delle entrate di Novembre: tornano a crescere anche i mutui. Secondo Coldiretti invece il segno più evidente del ritorno di fiducia sarebbe lo stop nel declino del consumo alimentare, che nel 2015 riprenderà a salire.

Concludono la settimana i dati che destano più attenzione di tutti, perché parlano direttamente delle persone. Secondo i dati Istat su occupati e disoccupati, l’occupazione cresce in un mese di 93 mila unità (+0,4%). In un anno gli occupati in più sono stati 109 mila (0,5%). Insieme all’incremento degli occupati questa volta si registra però anche un decremento della disoccupazione. Secondo Eurostat è il calo mensile più marcato di tutta la zona Ue (-0,4%).

Variazione mensile della disoccupazione, dicembre 2014, fonte: Eurostat  

E’ a questi dati che Renzi ha dedicato uno dei suoi ultimi tweet

https://twitter.com/matteorenzi/status/561094075286585344

 

In sintesi la maggioranza degli operatori che hanno anche un potere informativo è incline alla medesima conclusione: il 2015 sarà l’anno della svolta.

A rischio di parere disposti al disfattismo critico, conviene osservare che si tratta di una narrazione, un’interpretazione di tendenze dell’ultimissimo periodo che sembrano voler infondere sicurezza più che rilevarla.

Che in condizioni economiche così difficili da comprendere un obbiettivo sicuro da conquistare e mantenere sia il livello della fiducia non è certo frutto del pensiero manipolatorio di un mitologico potere organizzato. E’ piuttosto quel che resta paradossalmente quando la speranza è insufficiente. La fiducia, qualsiasi fiducia, si invoca e si verifica con più affanno proprio quando manca. 

Anche il premier Renzi ha fatto un tweet per consolidare questa cornice interpretativa.

https://twitter.com/matteorenzi/status/560722410086092800

"Segnali ripresa timidi ma interessanti, dai macchinari fino a previsioni PIL. Avanti con riforme, ridiamo fiducia a italiani #lavoltabuona".

Per essere realisti conviene però completare i numeri con quelli che illustrano lo stato del più ampio scenario da convertire; per ricordare che se imprese e famiglie sono invitate a confidare, consumare, investire, la politica non solo non ha esaurito i suoi compiti, ma nemmeno può rallentare gli sforzi.

I posti di lavoro stimati da Prometeia per il 2015, aritmeticamente sono la metà di quelli annunciati da Padoan dopo la presentazione della Legge di stabilità. Secondo il Ministro si attendevano 800 mila posti in 3 anni. Fermarsi qui equivarrebbe però a fare solo la parte dei gufi.

Sono invece i dati Istat su disoccupati e occupati a confermare un andamento alternato del mercato del lavoro. Gli ultimi due mesi erano stati di decremento dell’occupazione e il balzo di dicembre riporta sostanzialmente i dati ai livelli di settembre. L’occupazione è insomma stabile al 55,7%.

La minor disoccupazione concomitante alla maggior occupazione significa che chi ha cercato lavoro lo ha trovato, ma non significa che siano diminuiti gli inattivi, ossia coloro che non cercano lavoro né studiano. Siamo qui in perfetto tema di fiducia e le politiche che avevano questo precipuo obiettivo, ossia Garanzia Giovani, non hanno finora funzionato. La fase due del programma deve anzi ora evitare che si trasformi in un boomerang sul self-empowerment dei giovani neet.

I sentimenti maggioritari rilevati dall’ultima ricerca dell’Istituto Toniolo su 5 mila giovani tra i 19 e i 32 anni, sono pessimismo e sfiducia. L’85% di loro è convinto che le opportunità di lavoro in Italia siano scarse. Una sfiducia strettamente connessa a quella nelle politiche passate.

Il paragone con la condizione psicologica di un disoccupato di lunga durata è facile. E’ questo che rischia di accadere a una generazione intera, che non ha bisogno di dati felici più di quanto abbia bisogno di sostegno formativo e di orientamento.

Se guardiamo poi a coloro che già lavorano, le cose non cambiano molto. L’ultimo WorkMonitor di Randstad attesta che nel 2015, solo il 37% dei lavoratori italiani si aspetta un miglioramento delle condizioni economiche. Pessimismo in costante aumento dal 2011. E l’anno scorso erano in 6 su 10 a vedere positivo.

Da cosa deriva questo scoraggiamento che secondo Randstad è addirittura in controtendenza rispetto alla fiducia globale? Sempre i dati Istat, quelli su contratti collettivi e retribuzioni, forniscono alcune motivazioni plausibili. Il 55% dei lavoratori dipendenti è infatti in attesa di un rinnovo contrattuale e un lavoratore con contratto scaduto attende mediamente circa 37 mesi per il rinnovo. Sono 7,1 milioni i lavoratori in attesa. Le retribuzioni medie invece rispetto a Novembre sono in stallo. Sono aumentate sì dell’1,3% rispetto al 2013, ma si tratta del minimo stoico.

In fin dei conti quella della svolta improvvisa, del rilancio d’uscita dalla crisi appare una rappresentazione che rischia di esasperare gli animi. La condizione che l’economia attraversa non appartiene tanto al perimetro delle crisi, ma piuttosto a una condizione strutturale che insieme a colpi di bazooka, quale è stato pittorescamente classificato dalla stampa il QE, richiede interventi altrettanto strutturali. Grandi riforme che in Italia si stanno delinando con un profilo molto meno rivoluzionario rispetto a quanto proclamato. Così è almeno pensando alla supposta rivoluzione copernicana del Jobs Act, una rifoma a rilascio graduale, che decreto dopo decreto aspira a costruire la flexicurity Italiana.

Draghi l’ha detto, ancora una volta, durante la conferenza stampa seguita al consiglio direttivo della BCE che ha deliberato il QE. Poi l’ha ripetuto pochi giorni dopo in un intervista: senza le riforme dei governi non esiste fiducia; si potrebbe aggiungere: né delle imprese né dei cittadini, a qualsiasi generazione appartengano.