William Finnegan: nato a New York nel ’52, è cresciuto tra la California e le Hawaii. Oggi vive a Manhattan e lavora per il «New Yorker», «Granta», «Harper’s». Ha compiuto reportage dal Sudafrica alla Somalia, dall’Ucraina ai Balcani, occupandosi di guerra, povertà, criminalità organizzata. Ha scritto cinque libri

Quando guardo al passato, il solo vero rimpianto è aver dimenticato, distratto da altre passioni, le mie estati da ragazzino in Sicilia, passate da giugno a settembre remando barchini da pescatore, immergendomi al largo dalle boe, nuotando negli ultimi giorni prima di scuola nella schiuma delle cupe onde metalliche, annuncio d’autunno. La nostalgia mi spinge allora in biblioteca a cercare il mare, «colore del vino» secondo Omero, gli oceani di Melville e Conrad, la corrente tropicale di Santiago de Il vecchio e il mare, la novella di Hemingway che i posteri leggeranno per sempre. Tra i libri di oggi il seducente L’ombra del massaggiatore nero di Sprawson (Adelphi), con le nuotate di Goethe lungo il Canal Grande a Venezia e dell’autore nel Bosforo, o Un giro del mondo per una vittoria (Edizioni Mare Verticale), i ricordi di Alain Colas, navigatore solitario scomparso al largo delle Azzorre nel 1978, a 35 anni, durante la prima regata Route du Rhum. Allo scaffale aggiungo adesso - e invito lettori e lettrici a metterlo nel borsone delle vacanze, o sul tavolino del terrazzo per chi resta a casa - Giorni Selvaggi. Una vita sulle onde, meditazione sul surf di William Finnegan, pubblicato da 66thand2nd. 

Finnegan, inviato del settimanale New Yorker in Sudan, Somalia, Sud Africa e Messico, ha vissuto sulle onde da ragazzo, in California e alle Hawaii, dove il padre lavorava come producer televisivo. Il titolo originale del saggio narrativo è Barbarian Days, il surf è «barbaro», inventato dagli hawaiani prima che, nel 1820, i missionari bianchi lo proibissero come blasfemo. Da ragazzino Finnegan surfa con i compagni di scuola alle Hawaii, tra le consuete botte con i bulli di ogni aula scolastica americana, e impara dai compagni «moko», di origine polinesiana, che la crudele dea Pele governa le onde, indifferente ai sacrifici che le vengono tributati. Finnegan ha presto lasciato, dopo la Cresima, la fede cattolica dei genitori, la mamma, elegante «come un personaggio di Joan Didion», il papà, figlio di alcolizzati e pattinatore straordinario in velocità. Si converte alla cultura dei surfers, persuasi che ogni onda abbia una sua forza, in gergo detta «juice», succo, perché il mare lega la disincantata vita dei ragazzi con la tavola in spiaggia e la spiritualità ancestrale hawaiana.  

 

(William Finnegan «Giorni selvaggi» 66th and 2nd, pp. 416,€ 25)  

Gli hawaiani, benedetti da tempo meraviglioso e abbondanza di cibo e pesce, passavano le stagioni sulle tavole del surf, preparate e decorate dai sacerdoti, usate nei riti sacri per propiziare l’oceano, arrivando però a scommettere 4000 maiali su una sola gara. Il giovane Finnegan ne assorbe la mistica e la contrasta, nei ricordi, con la violenza di una spiaggia hawaiana che non ha nulla dello spot turistico, sporcata da droghe, alcol, povertà, razzismo, gang. Eredità, a suo avviso, del rapace colonialismo. Malgrado l’adesione delle isole agli Usa come cinquantesimo Stato, e i tanti caduti nella Seconda guerra mondiale, Finnegan ricorda che il club dei «gentlemen», gli occidentali «haole», si ostinava ad escludere i non bianchi dall’iscrizione. Non paradiso dunque, ma dura realtà da sfuggire librandosi su un’onda, imparando equilibrio, velocità, stile, «americani» contro «hawaiani», intenti a non schiantarsi sulla barriera corallina, le scogliere. Presto il magro e insicuro bambino bianco «haole» Finnegan è un uomo, presto i rivali di surf diventano amici, sodali, compagni di fede. 

Giorni selvaggi è memoria di formazione, classica dove i capitoli sulla scuola sono i meno originali, le piccole angherie subite dall’autore trasformate, secondo la moda vittimistica americana, in «violenze», le sculacciate in offese di cui ancora lamentarsi da adulti. 

Ma quando Finnegan sale sulla tavola, dapprima le lunghe Anni 60, poi le corte, veloci e affidabili, il libro prende ritmo e vi porta al largo sul mare, protagonista sacro, maliardo. «In mare, ogni cosa è legata in modo indissolubile e inquietante a tutte le altre. Le onde sono il campo da gioco. Il fine ultimo. Sono l’oggetto del desiderio e della tua ammirazione più profonda. Allo stesso tempo, sono anche il tuo avversario, la tua nemesi, il tuo nemico mortale. L’onda è il rifugio, il tuo nascondiglio felice, ma anche un territorio selvaggio e ostile, una realtà indifferente e dinamica. A tredici anni, avevo smesso in pratica di credere in Dio, ma questo nuovo sviluppo aveva lasciato un vuoto nel mio mondo, la sensazione di essere stato come abbandonato. L’oceano per me era simile a un Dio insensibile, infinito nella sua pericolosità, dotato di un potere smisurato. Eppure, perfino da bambino, eri tenuto a misurarti con lui ogni giorno. Dovevi - era essenziale, una questione di sopravvivenza - conoscere i tuoi limiti, sia fisici che emotivi. Ma come potevi conoscere i tuoi limiti se non li mettevi alla prova? E che succedeva se la prova la fallivi?». 

Elegante la traduzione di Fiorenza Conte, Mirko Esposito e Stella Sacchini, ma la base militare si chiama Pearl Harbor all’americana, non «Harbour» all’inglese, troppi morti di mezzo per introdurre la grafia britannica.