È una storia del ventunesimo secolo che comincia nel diciannovesimo secolo, storia di Imperi caduti e rinati, potenze che non vogliono decadere, amici e nemici che cambiano fronte ad ogni generazione.  

La disputa sulle isole Senkaku, così le chiamano i giapponesi, o Diaoyu, secondo i cinesi, ha conosciuto un nuovo capitolo nei giorni scorsi, quando la Cina ha annunciato che avrebbe imposto alle compagnie aeree di comunicare i piani di volo sulla zona del Mar Cinese Meridionale, in gergo Adiz, che reclama come propria.  

Le linee aeree hanno subito detto di sì, i rapporti militari tra Tokyo e Pechino, malgrado qualche recente miglioramento, non sono sincronizzati e il rischio di un incidente, un radar mal calibrato, la pressione di un militare falco, terrorizza l’aviazione civile. Ma il premier Shinzo Abe ha fatto subito fare retromarcia ai manager, nessuna comunicazione di rotte alle autorità cinesi, sarebbe un abdicare ai diritti sugli isolotti, disabitati e brulli.  

Gli americani hanno dapprima protestato con i ministri della Difesa Hagel e degli Esteri Kerry, poi mandato i bombardieri B52, simbolo di quel che resta dell’impero Usa, a volare sulle isole, a contestare la sovranità cinese. La reazione di Pechino è stata curiosa, non violenta nei toni, come sorpresa che giapponesi e americani rispondano alzando i toni, non abbassandoli. 

Alla vigilia della festa del Ringraziamento, l’opinione pubblica americana è distratta sulle remote isole Senkaku-Diaoyu e l’Europa ignora la frizione. Un errore, perché quegli scogli possono diventare la Crisi di Cuba del nuovo secolo, come l’impasse che vide affrontarsi 51 anni fa Kennedy e Kruscev.  

Il Giappone fa risalire i propri diritti al 1894, tempi della guerra Sino-Giapponese, ma Pechino replica che già il governo nazionalista Kuomintang aveva disegnato una mappa delle aree di influenza «delle 11 linee» che comprendeva le isole disputate. La Cina comunista rivendica dal 1953 un’area semplificata a «9 linee» che include le isole Pratas, Stratly, Paracel, il Macclesfield Bank come riconquistati dopo la Seconda Guerra Mondiale. 

Molti passaporti di cittadini cinesi sono decorati con l’elegante filigrana della mappa «a 9 linee». 

Ma la Storia è più ruvida di una filigrana e gli americani e i giapponesi hanno differenti narrative. Quando il Giappone perde la guerra, gli Usa assumono il controllo del Paese, incluso l’arcipelago delle isole Ryukyu che - secondo l’interpretazione di Washington e Tokyo - comprende le disputate Senkaku-Diaoyu. Pechino, da ancor prima della vittoria di Mao, non si dice d’accordo. 

L’8 settembre 1951 tutto dovrebbe andare a posto con la firma del Trattato di San Francisco, Usa, Giappone e 47 Paesi che chiudono la tragedia della guerra mondiale. Tokyo rinuncia a ogni rivendicazione sui territori di Corea, Taiwan (Formosa a quei tempi), Pescadores e Spratly. Quella carta diplomatica reca le tracce della tensione di oggi. Le Senkaku-Diaoyu non sono menzionate, perché, secondo Washington e Tokyo, fanno parte della «Prefettura di Okinawa» e, quando nel 1971 gli Usa restituiscono Okinawa ai giapponesi il patto è chiuso. In realtà né Taiwan né la Cina lo accettano, e l’alleanza militare nippo-americana del 1960 e la scoperta del petrolio nella zona, 1969, piantano a fondo i semi del veleno. 

Le isole sono al centro delle rotte commerciali e militari verso il Mar Cinese Meridionale, ricche di banchi di pesca e con il petrolio ormai accertato. I sommergibili le usano come boa e il traffico di superficie è formidabile, 4000 miliardi di merci in euro incrociano dal Mar Cinese Meridionale in un anno, il 23% import-export americano, con 11 miliardi di barili di greggio, 1900 miliardi di piedi cubici in gas naturale. Entro 20 anni il 90% del petrolio medio orientale passerà da quelle acque. 

Pechino, Washington e Tokyo e gli altri Paesi che seguono la disputa, Filippine, Malesia, Vietnam, Australia, non hanno come posta isole senza case, che il Giappone ha in parte riacquistate da un proprietario, temendo finissero proprietà di estremisti nazionalisti. Sanno che controllare quel mare, l’autostrada dello sviluppo dell’Asia in un secolo che intellettuali come Kishore Mahbubani a Singapore predicono «Secolo asiatico» significa controllare il Pacifico, il mondo, la pace e la guerra. 

La Cina ha varato una flotta d’alto mare, la prima dall’Impero, ristrutturando una portaerei ucraina che in queste ore, sotto le pretese di una «spedizione scientifica», naviga con quattro navi da guerra verso le Senkaku-Diaoyu. Vuol controllare lo stretto di Hormuz e l’imbocco dell’Oceano Indiano. Il presidente Xi Jinping ha avviato, cautissime, riforme economiche e demografiche interne, ma sa che davanti alle forze armate non può rinunciare ad accrescere l’egemonia cinese. La pressione del Drago getta quindi in braccio all’Aquila Usa amici e nemici di ieri, Giappone, Malesia, Filippine, Australia, Vietnam. Obama in Asia, continente al centro della sua strategia, non può sbagliare. 

Servirebbe che nessuno facesse mosse precipitose, che Pechino chiedesse un arbitrato internazionale sulle isole e che Tokyo si dicesse disposta ad accettarne il verdetto. La scommessa è purtroppo un’altra: chi comanderà nel XXI secolo come la Gran Bretagna comandava nel XIX e l’America (e solo in parte l’Urss) nel XX? India e Pakistan, ma anche Indonesia, Malesia, Russia, stanno a guardare con interesse come la Cina se la cava. Pechino non è mai la prima ad alzare i toni, butta il sasso e aspetta di vedere come reagiscono i rivali. Se resistono fa marcia indietro, se cedono, avanza.

Le pittoresche Senkaku-Diaoyu sono un pericolo per i traffici che dominano, perché Pechino non può rinunciarvi e perché dopo il «flip flop» sulla Siria Obama non può sbagliare. In Giappone Shinzo Abe ritiene che la Seconda Guerra Mondiale sia ormai chiusa e che il suo Paese debba potersi difendere dallo storico avversario continentale. Occhio a una possibile guerra dei nostri tempi, eredità di tempi remotissimi, imperi e faide che non finiscono mai.