Narra una leggenda urbana di Detroit che in una serata fredda di fine Anni 60 due dirigenti discografici di quella metropoli, famosa per le automobili, la musica Motown e più tardi il rap bianco di Eminem, entrarono in un bar, per una birra. Dietro il bancone c’era musica dal vivo, allora capitava. E malgrado gli affanni di giornata, il fumo delle sigarette e le chiacchiere degli avventori i due manager sono colpiti dal cantante. Il tono rauco e alto, «pitched» come i critici dicono di Bob Dylan, la cadenza disincantata, alla John Lennon. Ai due viene in mente un nome celebre – s’era esibito perfino al Festival di Sanremo - Jose Feliciano - e, business is business, passano all’artista un biglietto da visita.

Il cantante ha già inciso un disco I’ll slip away , con un’etichetta minore, Impact, arrivare alla Sussex, legata alla produzione Buddha, è un salto. Con Sussex, nel 1969, l’artista da bar produce due album, Cold fact eComing from reality , 1970 e 1971. I tempi son perfetti per quei versi aspri, sociali, dove il sogno di una vita poetica, amore, sentimenti, si scontra con la realtà di Guerra fredda, Vietnam, Medio Oriente, con i primi segnali di quella che gli economisti Bluestone, Sabel e Piore chiamano «deindustrializzazione d’America», lavoro che va all’estero, tecnologia che svuota catene di montaggio e Detroit. I critici amano Cold fact eComing from reality , nelle recensioni e nelle fanzine, rivistine underground. Il pubblico però non si emoziona, forse saziato da una stagione in cui Dylan, Lennon, i Creedence Clearwater Revival, Joan Baez e la band pazza di Woostock sono attivi. Del cantante scoperto per caso in un bar si perdono le tracce, la fama effimera si spegne, i dischi finiscono in bancarella, un dollaro dieci album.

Qualcuno, forse uno studente fuori sede, il figlio di un diplomatico, un turista, porta però in Sud Africa una copia di Cold fact . Sono anni orribili nel grande paese africano, il razzismo dell’apartheid è legge, i bianchi boeri opprimono la maggioranza nera. Nelson Mandela langue nel carcere duro di Robben Island, molti giornali occidentali (anche italiani e non sarebbe male ritrovare quegli articoli) insistono che la lotta per i diritti civili è animata dai «comunisti dell’Unione Sovietica». Tra gli studenti sudafricani, neri e bianchi, la musica arrivata da Detroit esplode con la rapidità felice in cui in Occidente si ascoltano Janis Joplin e Jimi Hendrix. «Ogni rivoluzione ha bisogno di un inno», ricorda un attivista, «per noi Cold fact divenne l’inno di rivolta».

Il Sud Africa è isolato da sanzioni che impediscono l’importazione di musica americana, così i boot leg , dischi pirata, spesso via Australia, diffondono quelle ballate nostalgiche e rauche. Per la generazione che contesta una delle ingiustizie peggiori del dopoguerra Cold fact è Blowin’ in the wind , grido di identità da ascoltare sul giradischi finché la puntina non si rovina.

Della sua fama in Africa il cantante del bar non sa nulla. Sussex prima e Buddha dopo sono chiuse, le sanzioni non permettono di registrare le vendite, né gli fruttano un cent in diritti d’autore. Nessuno può dire che fine abbia fatto «Sugarman», l’autore dei versi struggenti «Sugarman fai in fretta, sono stanco di questa roba, per un soldino non ridaresti tutti quei bei colori ai miei sogni?». E’ rimasto, nitido, solo nei ricordi.

Il tempo vola. Mandela vince il premio Nobel per la Pace, lascia la galera e la divisa a calzoni corti che era obbligato a indossare, diventa presidente del Sud Africa democratico. La lotta per i diritti civili e contro il razzismo è storia, studiata nelle scuole e nei musei, la realtà ha nuovi guai, economia, scioperi, Aids. È allora che a due ragazzi cresciuti con le nenie di Sugar man viene in mente di ritrovare l’artista amato, incontrarlo o sapere che fine abbia fatto. Hanno solo il nome per cominciare la ricerca, Sixto Rodriguez e gli album pirata dalla copertina ingiallita. Nasce qui l’avventura dei due fan raccontata nell’avvincente documentario Searching for Sugarman del regista svedese Malik Bendjelloul, che ha affascinato il Festival Sundance. I due appassionati hanno sentito che Rodriguez si sarebbe ucciso, una rivoltellata sul palcoscenico di un concerto in Australia, ma nessuno conferma. A Detroit i manager delle vecchie case discografiche non hanno idea dove sia finito Rodriguez né se sia vivo. Pressati sul mancato pagamento delle royalties, mentre la cinepresa di Bendjelloul gira, si agitano imbarazzati.

Sixto Rodriguez è vivo. Ha cantato per le scene australiane e quando lo show business gli ha girato le spalle ha fatto politica, candidato consigliere comunale a Detroit poi, come un eroe delle sue canzoni romantiche, ha lavorato in una ditta di demolizioni, studiando filosofia al college, corsi serali. E ha scoperto, nel modo classico dei nostri tempi, della sua fama in Sud Africa. Smanettando su Google, la figlia gli ha gridato una sera «Papà, lo sapevi che in Sud Africa sei una star?». La fine è gioiosa. Rodriguez è ritrovato, partecipa al lancio del documentario sulla sua «scomparsa», appare al programma di David Letterman, alla Cnn, i dischi rilanciati da Light in the Attic, il canale Youtube colmo delle sue canzoni. Una serie di concerti sono chiamati per scherzo «I morti non vanno in tour».

Searching for Sugarman testimonia del potere della musica, collante di politica, ideali e sentimenti personali, pochi versi, una chitarra, colonna sonora di una generazione e tante vite. Elegante dietro gli occhiali da sole, riservato, semplice, Sixto Rodriguez, bluesman, demolitore, filosofo, guarda al destino con serenità. La sua più bella canzone, I wonder , recita : «Mi chiedo, quanti piani sono andati all’aria?, quante volte hai fatto l’amore, mi chiedo chi sarà il prossimo? Mi chiedo dell’amore che non trovi e della mia solitudine e per quanto ancora saprai andare avanti...».