NEW YORK. «Abbiamo perso vent’anni, il tempo di una generazione, nel giornalismo. Dal 2000 i media di qualità non hanno saputo interpretare la rivoluzione digitale, arroccandosi nella vetusta mentalità del passato. Ora, in America come in Europa e nel resto del mondo, vedo finalmente le prime reazioni. La svolta full digital della Stampa mi incoraggia quindi e vi faccio i miei migliori auguri»: Sree Sreenivasan ha insegnato new media alla Columbia University, in un seminario affollato di star, Linda Bernstein in prima fila, ha poi portato il classico Metropolitan Museum nel mondo dei dati, dei video, delle piattaforme social, è stato il primo direttore Media della metropoli di New York con il sindaco De Blasio e ora tiene il corso «Digital Innovation and Audience Engagement» alla Stony Brook University. Vero intellettuale globale, indiano d’origine, vissuto alle Isole Fiji, in Giappone, in Unione Sovietica, «Sree», come tutti lo chiamano, riconosce che «La tecnologia serve a poco se non cambiano le nostre menti. Troppo a lungo noi giornalisti, mi metto anche io tra i penitenti, abbiam creduto di avere tutte le risposte, e invece non le avevamo».

Cosa è accaduto durante la «generazione perduta» e che strada deve intraprendere adesso il giornalismo di qualità?
«Siamo in un dopoguerra per la professione. In America un giornalista su due ha perso il lavoro, in Europa avete migliori garanzie, ma tanti hanno sofferto. Spesso sento elogiare gli esperimenti in corso al New York Times, al Financial Times, con gli abbonamenti digitali, le nuove redazioni, ma dobbiamo concentrarci anche sui brand di media grandezza o locali. Il giornalismo non può diventare una Madison Avenue delle idee, con pochi marchi di lusso, ha bisogno di radici, di alimenti ovunque. Per questo il progetto del gruppo con Repubblica, La Stampa, Secolo XIX, i quotidiani locali e le radio mi interessa. L’opinione pubblica è smarrita, non penso solo alle elezioni presidenziali con Trump a novembre, ma anche al coronavirus: davanti all’emergenza la gente sente, acuto, il bisogno di qualità».

Anche chi ha visto per tempo la crisi del vecchio modello di informazione è però impressionato dal suo impatto feroce, sul business e sulle democrazie, incapaci di vivere senza opinioni condivise e responsabili.
«Esatto! Quel che vorrei proporre a Maurizio Molinari e ai suoi colleghi in queste ore di febbrile innovazione è il concetto di “Giornalismo Tradigitale”, coniato da Sig Gissler, amministratore del premio Pulitzer, il Nobel dei cronisti. “Tradigitale” vuol dire che non basta innestare le redazioni sui social media per cambiar passo. Occorre che i valori tradizionali del nostro mondo, la verità, l’etica, scrivere una storia onesta, farlo presto e bene, il vademecum del cronista, restino al centro. Forte di questo corredo, però, ogni giornalista deve essere in grado di comunicare con la tecnologia».

Usavamo dire «New media, Old values», i mezzi sono nuovi i valori antichi, ricordi?
«Pensa al concetto di deadline, il giornale chiude a una certa ora e basta. Ma anche al lap top, il computer, da cui ora vorrei liberare i cronisti e che rischia di legarli quanto una penna stilografica. Il telefono cellulare, ecco la prima chiave, impariamo ad usarlo con video, podcast, audio, testi lunghi, geolocalizzazione del pubblico in strada. Le persone impugnano il cellulare come ponte verso la realtà e se non lo presidiamo cediamo il campo ai disinformatori».

Escono nuovi saggi per studiare il web, “Uncanny Valley” di Anna Wiener o “Lurking: how a person became a user” di Joanne McNeill: chi lo vede preda delle fake news, chi ancora aperto al dibattito oltre il mito delle bolle che imprigionano le opinioni. Tu come la pensi?
«Quanto ha impiegato la stampa a creare fiducia nella sua comunità? Secoli. Questa è ricchezza da valorizzare. Il 2020 è un anno storico, non solo per il voto Usa, ma per le sfide sull’ambiente, Uomo o Natura? Le nostre scelte impegneranno il genere umano a lungo, ma come esercitarle senza dati corretti? L’odio populista, destra e sinistra, ha logorato la fiducia, in India i social media, i troll, hanno ucciso persone innocenti. Ora dobbiamo recuperare, sia usando infine la tecnologia in modo competente, sia facendo a meno di arroganza, presunzione, la Torre d’Avorio snob che a lungo ci ha isolati. Dobbiamo andare tra la gente con rispetto per tutti, senza spocchia. Non sempre abbiamo le risposte, e allora possiamo fare le domande, discutere i dubbi».

Cosa ti rende ottimista in questi che definisci tempi decisivi?
«Insegnare. A Stony Brook, come al tuo Master Luiss a Roma quando vengo a trovarvi, trovo ragazze e ragazzi che sanno benissimo quanto difficile sia il giornalismo, potrebbero fare soldi altrove, ma cercano impegno, verità, consapevoli più di noi che, oltre gli stipendi indispensabili alla professione, siamo i garanti di una libera discussione, cruciale per vivere senza oppressione. Auguri dunque a voi e aspetto colleghi e lettori de La Stampa il 21 marzo, alla Social Media Week smwknd.com e al gruppo Facebook bit.ly/sreesocgroup perché questa sia davvero una primavera digitale per noi tutti».