La grande fabbrica di eufemismi che si chiama Nazioni Unite si ostina a chiamare la guerra civile in Siria «conflitto armato non internazionale» quando invece perfino la Croce Rossa, da 72 ore, parla senza complimenti di «civil war».

Aben guardare, dentro lo scontro a Damasco le guerre son ben più d’una, ciascuna colma di pericoli, e così intrecciate da rendere la soluzione inevitabile, l’uscita di scena del regime alawita guidato dal capoclan Bashar al-Assad difficile e sanguinosa.

Il primo, e più crudo, conflitto oppone quel che resta del governo di Damasco alle composite forze ribelli della Libera Armata Siriana. Il lettore non consideri, giudicando gli eventi, che la Siria sia in mano a una classica dittatura, il paragone più calzante è quello di un clan mafioso, una famiglia criminale sul modello del Padrino. L’attentato che ha colpito il cuore del sistema, uccidendo il cognato di Assad, Assef Shawkat, il generale sunnita Turkmani, il ministro cristiano Rajha, ferendo il generale e ministro Shaar impressiona per la vicinanza dei gerarchi al potere: Damasco parla di un kamikaze, i ribelli di una bomba detonata a distanza, poco cambia. Come l’attentato degli ufficiali Junker guidati da von Stauffenberg contro Hitler nel 1944, solo grazie ai disertori, in testa il generale Manaf Tlass, si poteva arrivare nelle stanze segrete.

Al regime - calcola il Council on Foreign Relations - restano due divisioni in ordine di combattimento, un’aviazione ancora capace di rendere un eventuale raid della Nato a rischio, un arsenale di armi chimiche in grado di duplicare la strage dei curdi, 5000 morti e 10.000 intossicati dai gas di Saddam ad Halabja, Iraq, 1988. Per questo il veto, che la storia deprecherà, imposto al Consiglio di Sicurezza Onu da Russia e Cina alla richiesta inglese di sanzioni contro la Siria è ipocrita. Il ministro russo Lavrov lascia capire che Mosca e Pechino temano un intervento Nato, o occidentale, come in Afghanistan e Libia. Ma Putin e Hu Jintao sanno benissimo che né il presidente Obama, né gli europei studiano un attacco. Nei sondaggi e nell’esame dei «metadata», la pubblica conversazione sui social media, la maggioranza di europei e americani resta ostile a un raid umanitario. Obama ha solo un esile vantaggio sullo sfidante repubblicano Mitt Romney, è appeso agli umori di una mezza dozzina di Stati incerti, e si gioca tutto sull’economia, migliore di quella europea ma comunque anemica. Non è aria di diversioni belliche internazionali, né micro come Reagan a Grenada 1983, né macro come G. W. Bush a Baghdad 2003, entrambi anni di vigilia elettorale. Tanto più che ieri il petrolio greggio Brent è salito di $2,14 a $107 al barile, record da 7 settimane, per le violenze in Siria e gli scontri verbali tra Teheran e Washington, brutta notizia nella crisi. Teheran parla di bloccare lo Stretto di Hormuz con i suoi motoscafi veloci, la Marina Usa si dice tranquilla di difendere la cruciale via d’acqua, il mercato imbizzarrisce.

Questo è il secondo conflitto, geopolitico, parte di una complessa partita che americani, russi e cinesi giocano dalla frontiera con l’India, alla Birmania, all’Oceano Indiano (dove i cinesi vogliono varare una flotta d’alto mare), all’Iran. Putin ha in Siria l’ultimo avamposto nel Mediterraneo e non vuol perderlo.

La Nato non interviene perché i ribelli non rappresentano un fronte nazionale unito, aperto a tutti i siriani non alawiti (alawita è la minoranza che regge il governo e nella roccaforte alawita di Latakia potrebbe fuggire Assad, mentre la moglie Asma riparerebbe a Mosca). Molti cristiani, come in Iraq sotto Saddam Hussein, temono l’insorgenza fondamentalista islamica e preferiscono il fragile compromesso imposto da Assad padre. Le armi affluiscono da Golfo e Turchia col contagocce perché si teme che poi servano ai ribelli, caduto Assad, per una pulizia etnica atroce. Così arsenali diffusi restano gli Ied, bombe fatte in casa (la formula micidiale si trova sul web), realizzate con fertilizzanti e prodotti chimici dell’industria, innescati da telecomandi, telefonini e perfino sospensioni di automobili.

Il terzo conflitto oppone l’Arabia Saudita e i suoi vassalli all’Iran sciita, temuto non solo per l’aggressivo programma nucleare ma per i secoli di «eresia» che Teheran rappresenta agli occhi dei salafiti e dei sunniti, musulmani tradizionalisti. Le difficoltà di Hamas a Gaza e di Hezbollah in Libano sono legate a questa dimensione dello scontro, e anche su questa occidentali, russi e cinesi intervengono dall’ombra. La strage di turisti israeliani in Bulgaria, che il governo di Gerusalemme ha subito messo in conto all’Iran, è un tentativo di allargare il fronte e prendere tempo, coinvolgendo in blitz e raid Israele.

Il piano in 6 punti dell’inane ex segretario Onu Kofi Annan non ha mai avuto una seria chance di successo, le sanzioni vengono bocciate dal veto russo-cinese e la parola, brutale, resta alle armi. Human Rights Watch e le altre organizzazioni internazionali ripetono che la popolazione civile, dai sobborghi di Damasco alla frontiera, paga il prezzo dell’impasse, ma ormai la guerra civile, «conflitto armato non internazionale» nel galateo Onu, è la protagonista e finirà solo con vinti e vincitori sul campo. Scade oggi il mandato ai 300 osservatori Onu che, a parte rischiare nobilmente la vita, poco hanno da fare e il generale casco blu norvegese Mood ammette: «Non c’è pace in Siria».

Guardate dunque a Damasco, ai sobborghi di Qaboun, Tadamon, Yarmouk, Mezze, Kafr Sousseh, imparate a memoria questi nomi perché là, non al Palazzo di Vetro Onu di New York, alla Casa Bianca o al Cremlino, si gioca il destino della Siria. I bloggers che sfuggono alla censura parlano sul web di cecchini, rastrellamenti casa per casa, bombardamenti dell’artiglieria. Interi quartieri alawiti si sono blindati, c’è chi sogna un’assurda ultima resistenza nella roccaforte di Latakia, una secessione magari. Usa ed Europa, placcati da russi e cinesi, possono isolare ancora Assad bloccando viaggi e comunicazioni, e preparare una lista di criminali di guerra - si calcolano in oltre 15.000 le vittime della repressione per forzare altre diserzioni.

Quando la battaglia per Damasco finirà e Assad cadrà, in esilio o giustiziato come Gheddafi, comincerà un lavoro diplomatico e di aiuti economici complesso, per evitare, o ridurre al minimo, rivalse e vendette etniche e settarie. Persa la mano Putin tratterà. Ma prima deve finire la guerra: e nel frattempo ogni conclusione è precoce, guardate che fine hanno fatto le previsioni rosee sulla Primavera araba e le cupe geremiadi di inevitabile trionfo islamico. Senza inferni e paradisi annunciati, la Storia si fa strada in Libia, Egitto e Tunisia e altrettanto accadrà in Siria, quando - speriamo al più presto - le armi taceranno. Fino ad allora conta solo quella che lo scrittore Vasilij Grossman chiamava «la dura verità della guerra».