I sei mesi che ci separano da Pasqua, 16 aprile 2017, saranno i più pericolosi e colmi di tensione internazionale, secondo gli esperti «ottimisti» dalla fine della Prima Guerra Fredda, nel 1989, secondo i «pessimisti», dalla crisi dei missili sovietici a Cuba, 1962. Pochi giorni fa, al Council on Foreign Relations, think tank storico dei Kennan, Harriman, Acheson, gli uomini che elaborarono la strategia democratica contro l’Urss, si sono riuniti Fiona Hills, Robert Legvold e Stephen Cohen, gli ultimi saggi Usa sulla Russia di oggi. Cohen persuaso che l’aggressività di Vladimir Putin dipenda dagli errori dei presidenti Usa, da Clinton a Obama, Hills e Legvold, a ragione, certi che Mosca, a prescindere dalle mosse occidentali, abbia un disegno autonomo, riportare il paese al ruolo, anche solo psicologico, di grande potenza perduto con la caduta del Muro di Berlino. Nessuno ha però escluso che le frizioni in corso, Ucraina, Siria, Iraq, con la squadra navale russa nel Mediterraneo e missili antiaerei di Mosca già puntati contro la «no fly zone» cui pensa Hillary Clinton, possano sfociare, presto, in guerra aperta. 

La II Guerra Fredda è più calda, in potenza, della prima, perché il fronte non passa dall’Europa orientale, cuscinetto di Stati voluto con gli accordi di fine guerra a Yalta da Stalin, ma a ridosso della Russia, Artico, Paesi baltici, bacino del Donec, Donbass. Ogni errore di comunicazione è dunque scontro diretto potenziale con il Cremlino. La Cina, con Xi Jinping che controlla il partito come nessuno dopo Mao, guarda Mosca e Washington fronteggiarsi, e presidia in armi gli accessi al Mar Cinese Meridionale - da lì passano merci e materie prime cruciali -, pronta ad avvantaggiarsi di ogni errore altrui, già aprendo al violento leader filippino Duterte scontento di Obama. 

Se i sondaggi hanno ragione, Hillary Clinton debutterà alla Casa Bianca: ma con l’Europa ripiegata sulle trattative impossibili di Brexit, l’epidemia austerità e la fine del sogno politico comunitario, anche la Nato languirà - quante polemiche per un battaglione italiano, uno!, schierato sul Baltico -, e l’idea di difesa europea, buona in sé, finisce per soffondere nebbia fitta sull’Atlantico. Trump presidente sarebbe un azzardo totale, mischiando la resa virtuale a Mosca, con sprazzi di belligeranza isterica. 

Il caos strategico è rabbuiato dall’ondata di nazionalismo, con la premier inglese May a insultare i «cittadini globali» ed evocare la xenofobia da pub dei John Bull locali, e Marine Le Pen, in pectore presidente francese 2017, a vantarsi dalla copertina della rivista Foreign Affairs «La Francia è sempre stata più potente da sola, da “Francia”. Io voglio riscoprire la forza francese». In realtà, «da sola», la Francia venne travolta da russi, inglesi e tedeschi nell’800 e nel ’900 vide Hitler passeggiare vittorioso sotto la Tour Eiffel, ma a Le Pen interessa rinfocolare il nazionalismo che brucia, tossico, ovunque, dagli slogan «L’America torni grande» di Trump agli insulti dell’ungherese Orban all’Italia.  

La miccia che può innescare ogni deflagrazione nei prossimi mesi è la sfiducia crescente nella democrazia tra i nostri cittadini, seminata da classe dirigente mediocre, crisi economica, stagnazione della crescita, smarrimento della identità tra individui e comunità. Gli elettori che premiano i populisti, destra e sinistra, son persuasi che il centralismo politico e industriale di Mosca e Pechino «funzioni meglio» di democrazia e libero mercato. Ai comizi di Trump i fan vanno con t-shirt decorate dal volto macho di Putin e, nelle interviste alla scrittrice premio Nobel Aleksievic, i moscoviti lamentano: «Per la democrazia non siamo nessuno, con l’Urss almeno sapevamo di esser russi». 

La «classe globale», invisa a May, Le Pen, Trump, Sanders e Corbyn e ai nostri populisti domestici ha perduto la battaglia del consenso, per snobismo, avidità, mancanza di fiducia nei nostri valori. Se non vogliamo che, come sempre nella Storia, il nazionalismo liberi i suoi figli rabbiosi, razzismo, antisemitismo, totalitarismo, dobbiamo ripartire da pochi, semplici, ideali e riforme: lavoro, sviluppo, ricerca, apertura alle altre culture ma con fierezza e difesa della nostra. La democrazia non può essere vista come la frigida burocrazia dell’Unione Europea che stima occhiuta un +0,1% mentre l’Italia è tormentata dai terremoti, o la mucca obesa foraggiata dai dollari delle lobby in America. I sei mesi che ci dividono da Pasqua son troppo pochi perché questa battaglia possa essere vinta, ma abbastanza per capire se stiamo perdendola, per sempre.