"Terni resistenza d'acciaio". È lo striscione che ha accompagnato il presidio dei lavoratori delle acciaierie della città umbra davanti al Ministero dello Sviluppo Economico. La trattativa è  tra sindacati di categoria, azienda e amministratori locali è ancora aperta. Mercoledì scorso sembrava che la vertenza fosse stata sbloccata dalla disponibilità dell'azienda a rivedere il piano industriale e tornare a pagare i dipendenti, ma a una settimana di distanza lo sciopero dell'intera fabbrica prosegue e arriva al ventunesimo giorno. Il nodo verte proprio attorno alle novità del piano industriale, "insufficienti" secondo quanto comunicato dai sindacati proprio ieri sera.

Il Governo non smette però di esprimere ottimismo, cosa che aveva cominciato a fare dalla supposta svolta suddetta,  che segnalava in effetti un cambiamento di clima rispetto al quello incarnato dal controverso episodio delle manganellate agli operai, due settimane fa. Bisogna tornare a quel momento per individuare una svolta, quella sì indiscutibile: lo scontro frontale, ormai senza esclusione di colpi, tra Governo e sindacati era improvvisamente atterrato nelle fabbriche e nelle piazze riportando l’attenzione sulle questioni dell’economia reale. 

E così la memoria era tornata in brevissimo tempo al latente rebus della "siderurgia".  Una parola di cui pochi Italiani hanno fatto la conoscenza più tardi della quinta elementare, studiando la composizione produttiva del Paese nelle ore di geografia. Eppure nonostante la tradizionalità dell'argomento, i più esperti di politiche industriali si arrovellano oggi per definire una soluzione ai problemi del settore, cosicché l'eta del suo splendore non sia destinata piuttosto ai soli libri di storia.

In pochissimo tempo si sono susseguite le opinioni di chi invoca la nazionalizzazione dell'industria dell'acciao come soluzione alla grave crisi in corso. Con le rispettive differenze, si sono espressi Landini, Bombassei, Deaglio, Mucchetti: un sindacalista, un imprenditore, un economista e un senatore, tutti d’accordo. Le voci discordanti non mancano. Solo l'altro ieri il sottosegretario Delrio ha dichiarato che "l'acciaio di Stato è una roba di tanti anni fa, lo Stato può gestire in maniera temporanea, in momenti gravissimi, come per ILVA" ma che poi "bisogna aprirsi al mercato privato".  Certo è che quelle per il siderurgico non sono preoccupazioni spropositate: se solo 9 delle 160 vertenze aperte al tavolo del Ministero dello Sviluppo Economico provengono dal settore siderurgico, questo esprime però il maggior numero di lavoratori coinvolti: 21.400 per l’esattezza.

Deaglio riassume i problemi dell’acciaio in due componenti: la crisi economica globale, con la conseguente contrazione della domanda, e la concomitante competitività di altri materiali. In questo quadro la dinamiche di Piombinio, Terni e Taranto, si somigliano: la tecnologia italiana verrebbe venduta ad imprenditori esteri, che valutandone però la sovracapacità produttiva non rimedierebbero comunque ai tagli occupazionali, ma ridimensionerebbero anzi gli impianti.

Non si tratta però di una crisi solo interna, e lo hanno capito anche i lavoratori della AST giunti settimana scorsa anche a Bruxelles con una delegazione. Nel frattempo è infatti interessante domandarsi cosa faccia l’Europa, alla quale i più imputano una responsabilità nella vicenda umbra. Nel dicembre 2012, l’azione antitrust della Commissione Europea aveva obbligato i finlandesi di Outukumpu a cedere gli impianti di Terni alla Tyssen, azienda molto meno interessata a investire sull’Inox e quindi sugli stabilimenti italiani. Da lì la situazione odierna.

Tornando alle elementari, un’altra nozione che abbiamo appreso più o meno tutti è che il prototipo embrionale dell’attuale assetto comunitario risale a quella Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA) creata col Trattato di Parigi del 18 aprile 1951. Una cooperazione industriale come espressione e garanzia della pace continentale post-bellica. E’ con l’adesione strategica a quella convenzione, voluta da De Gasperi, che inizia anche il periodo d’oro dell’acciaio italiano: 259 stabilimenti per 210 aziende: Falck, Ilva, Ferriere Fiat, Terni, Breda, Dalmine, Redaelli, Cogne, Siac e La Magona le dieci più grandi. Facile quindi concordare con le parole di Antonio Tajani pronunciate da responsabile per l’industria della Commissione Europea: “non si può dire Europa se non si può dire acciaio”. Tuttavia la strategia europea di settore è stata rivista e ridefinita poche volte in maniera decisa: nel 1977, con il Piano Davignon (“indubbiamente il più importante intervento di politica industriale mai condotto a livello europeo” secondo la Treccani) e 36 anni dopo, cioè l’anno scorso, con un nuovo Piano d’Azione per la Siderurgia. Il piano ha fissato l’obiettivo di passare dall'attuale 15.2% al 20% del PIL sul manifatturiero entro il 2020, "cosa che senza un settore dell’acciaio competitivo, innovativo e sostenibile, non sarebbe possibile".

Una nuova strategia era ormai urgente. Secondo i dati della World Steel Association la Cina è diventata leader indiscusso del settore dalla seconda metà degli anni Novanta, con ritmi di crescita e rapporti di forza impressionanti. Il Paese produce oggi la metà dell’acciaio di tutto il mondo. Gli Stati Uniti, sorpassata la rispettiva crisi, si avviano invece a diventare esportatori netti, mentre emergono nuove potenze come India, Russia, Ucraina e Turchia.

           Crude Steel Production 1982-2012 (migliaia di tonnelate)

           Crude Steel Production 2013 (migliaia di tonnellate)

           Fonte dati: World Steel Association

Il declino europeo è per contro lampante: meno 27% di produzione rispetto al livello pre-crisi. Aggiungiamo il fatto che l’industria dell’acciaio è tra le principali responsabili delle emissioni di Co2 nel globo e la domanda sorgerà spontanea: ma questo acciaio s’ha proprio da fare? Contrariamente alla complessità del problema, la risposta è piuttosto semplice: la produzione mondiale non è ferma ed Europa e Italia conservano oggi asset strategici che possono permettere loro di mantenere una posizione centrale relativamente a livello globale e continentale. Nonostante l’alta competizione l’Europa nel 2013 resta il secondo produttore mondiale, e l’Italia il secondo produttore tra i 27 paesi dell’Unione.

Crude Steel Production 2013

Fonte dati: World Steel Association

Anche le coordinate condivise per un programma di salvataggio sembrano essere chiare. Nondimeno tocca rilevare che ogni tassello della soluzione complessiva incontra in Italia difficoltà peculiari. Dato l’alto impatto ambientale la produzione siderurgica va subordinata a misure tecnologiche in grado di renderla sostenibile, compatibile con l’occupazione e la salvaguardia del territorio. Ciò significa innanzitutto adozione di una regolazione oculata e condivisa, tema che in Italia non può che riportare alla mente il braccio di ferro non ancora terminato tra i poteri dello Stato nel caso Ilva.

In secondo luogo rendere la produzione di acciaio sostenibile significa investire in ricerca e sviluppo, funzionale anche alla competitività del materiale. Il dato ormai assodato, tocca ricordarlo, vede però l’Italia come fanalino della coda europea in quanto a spese in ricerca e sviluppo. 

Terzo: l’acciaio non produce molti utili e data la sovra-capacità del suo sistema industriale, andrebbe esportato di più. In questo l’Italia è in grave ritardo se confrontata con il primo produttore europeo, la Germania, che dal 2003 al 2011 è passata dal 33 al 50% di esportazioni. 

Quarto: è necessario adottare una strategia di lungo periodo, tradizione a cui il nostro Paese è poco avvezzo, soprattutto nei settori dove è più altro il consumo d’acciaio: costruzioni e trasporti.

Infine un aspetto che ci riporta direttamente alla cronaca. Tutti sperano che il confronto in corso al Mise nel merito del nuovo piano industriale AST confermi il segnale di un cambiamento nei rapporti tra Governo e sindacati, almeno quando si tratta di vertenze aziendali. Ma come sottolinea Deaglio, per un piano industriale esteso serve anche il dialogo con il sindacato a livello nazionale. Cosa che non deve coincidere necessariamente con la concertazione della politica di sviluppo, ma certamente con l’esercizio di quel dialogo sociale che la foga della rottamazione renziana, nonostante le simboliche aperture, sembra aver trascinato ormai nell’oblio.

A voler essere evocativi, proprio la siderurgia potrebbe ispirare un approccio divero: l'acciaio si ricicla al 100% senza perdita di qualità. Con certe forme di confronto con le forze sociali a Renzi potrebbe convenire fare altrettanto, prima che la sua politica si trasformi in un eterno grezzo.