Da venerdì scorso tutti i lavoratori delle Big Three di Detroit (Fiat Chrysler, General Motor e Ford) hanno un nuovo contratto collettivo di lavoro che varrà 4 anni. Gli accordi siglati tra ognuna delle case costruttrici di auto e lo United Auto Worker, il sindacato unico di settore, contengono tutti incrementi salariali e maggiorazioni nei bonus ai lavoratori.

Dal punto di vista della contrattazione, per parafrasare il New York Times, si è trattato di cinque mesi “dolorosi”. Dal punto di vista invece del rapporto tra il sindacato e la base dei lavoratori, la vicenda ha avuto una trama degna delle migliori campagne referendarie e ha visto fronteggiarsi sostenitori e oppositori degli accordi raggiunti, la cui effettività era subordinata al voto dei lavoratori.

La stagione contrattuale era stata anticipata dagli avvertimenti del Presidente del sindacato Denis Williams, che al motto di “this is our time” aveva prefigurato una negoziazione tutta volta al superamento del ricorso senza limiti al doppio livello salariale; meccanismo che dal 2007 vedeva da un lato i nuovi assunti e dall’altro i veterani, senza alcuna possibilità di parificazione retributiva con l’anzianità.

Aveva poi destato una certa sorpresa la scelta di FCA, come primo interlocutore per la contrattazione. Secondo la prassi del cosiddetto pattern bargaining, ossia uno schema di contrattazione di settore, quanto ottenuto con il primo accordo sarebbe servito da binario per i successivi contratti con GM e Ford. Essendo FCA la più debole delle sorelle dal punto di vista finanziario, e avendo ad essa rivolto lo UAW le più generose concessioni durante il salvataggio da parte di Fiat tra il 2007 e il 2009, per il sindacato probabilmente sarebbe stato più facile avanzare ora delle rivendicazioni e ottenere delle maggiorazioni da far poi rivalere nei confronti delle altre big.  

Il primo tentative agreement (un contratto provvisorio) è stato però bocciato dai lavoratori, essenzialmente perché non prevede un vero e proprio superamento del divario salariale, bensì una più modesta riduzione della forbice. Il sindacato ha scelto quindi di tornare al tavolo con l’azienda e ha proposto un secondo accordo contenente l’effettiva parificazione delle retribuzioni, con incrementi anche per i veterans, applicabili però nel corso di otto anni, ossia con l’alea di un altro contratto di mezzo, di cui si parlerà quindi tra quattro anni. Complice un non trascurabile cambio di strategia comunicativa da parte del sindacato, il contratto stavolta è stato approvato dai membri e setta quindi la linea per la la successiva contrattazione con GM, per quanto i referenti dell’azienda si siano sforzati di smentire un legame. Nemmeno l’accordo con GM ha avuto vita semplice: il 6 novembre i production worker hanno votato a favore, mentre i lavoratori specializzati hanno votato per il no. Era successo solo altre due volte nella storia. Secondo lo statuto UAW il contratto non poteva essere ratificato senza prima ridiscuterne con gli skilled worker. Si trattava di un passaggio discusso, definito da alcuni “imbroglio” e che ha prestato il fianco a quanti accusano il sindacato di ritrosia. Tuttavia, dopo due settimane di negoziazione con l’azienda, il sindacato ha proposto una modifica dell’accordo proprio attorno alla tutela del sistema tradizionale di classificazione e di avanzamento d’anzianità, ottenendo la ratifica da parte di GM, giunta proprio venerdì.

Durante queste due settimane il sindacato si è trovato impegnato su due fronti perché, nel frattempo, era già stata raggiunta una bozza di accordo, già in fase di approvazione da parte dei lavoratori, anche con Ford. Anche in questo caso il rischio di fallimento era altissimo. Il trend delle prime votazioni sembrava positivo, ma si è invertito quando cominciano ad esprimersi i lavoratori degli stabilimenti più grandi. Si è trattato di una consultazione sul filo di lana, seguita con particolare trepidazione dagli addetti ai lavori. Nonostante gli strettissimi margini (52%) però il contratto Ford è stato approvato nella stessa giornata di venerdì. Nel giro quindi di poche settimane i giochi si sono compiuti per l’intero settore dell’auto, e la burrasca contrattuale si è spenta.

Cosa significhino gli esiti di questi cinque mesi di confronti per il futuro del lavoro nel settore dell’auto statunitense è però oggetto di valutazioni contrastanti.

Con le parole di Alissa Priddle, attenta e vicina osservatrice della Detroit Free Press, si potrebbe parlare di una nuova stagione di “pace e prosperità visti i record nelle vendite”. La prospettiva antiunion però risulta comunque prevalente. Joann Muller di Forbes scrive addirittura di un “sindacato che non è un sindacato”, sottolineando come le divisioni interne preluderebbero al fallimento e come le ampie differenze finanziarie tra le tre diverse sorelle abbiano messo fine al pattern bargaining.

In realtà, comunque la si pensi sul ruolo del sindacato, qualche effetto sui successivi il contratto firmato con Fiat-Chrysler lo ha avuto, non solo perché i guadagni sono stati ottenuti poi anche dai lavoratori delle altre case; e nemmeno solo per la sorta di effetto domino che si potrebbe desumere dal fatto che si è andati da una bocciatura (FCA) a una correzione senza bocciatura (GM) fino a un contratto approvato, per poco, ma comunque senza alcuna variazione rispetto alla prima proposta (Ford). A bocce ferme, risultano piuttosto interessanti le parole spese dall'editorial Board del New York Time all’indomani dell’approvazione del contratto UAW-FCA, in quello che appare a tutti gli effetti un endorsment. Il contratto avrebbe testimoniato “quello che un sindacato può fare per la classe media americana”. La sua portata non si limiterebbe alle grandi di Detroit, ma si estenderebbe almeno a tutto il settore dell’auto. I produttori stranieri operanti in USA inizierebbero infatti a sentire “la pressione ad avvicinarsi ai nuovi standard”. Pur non avendolo messo in campo, il contratto firmato con FCA ha riaffermato, secondo il New York Times, “il potere del sindacato di usare la minaccia di uno sciopero per chiedere una migliore distribuzione”. Inoltre, lo scenario in cui i lavoratori non sindacalizzati del sud fossero più inclini a votare a favore della presenza del sindacato in azienda, attratti dalle conquiste salariali dimostrate altrove, ad oggi non è in effetti implausibile. Interessante a riguardo sarà anche il voto delle prossime settimane di alcuni lavoratori specializzati nello stabilimento Volkswagen di Chattanoga, pochi, ma difficili da sostituire in caso di sciopero, e quindi portatori di un maggior potere contrattuale, nel caso riuscissero a portare il sindacato dentro l’azienda.

Non la pensa allo stesso modo Daniel Howes, editorialista del Detroit News, secondo il quale sia il sindacato forte, sia le aziende “molli” sono da biasimare per i contratti stipulati. L’analisi di Howes prefigura un'involuzione del sistema di relazioni industriali di settore. L’equilibrio migliore possibile tra livelli salariali e posti di lavoro sarebbe in sostanza quello mantenuto durante gli anni della crisi, mentre le conquiste ottenute in questa tornata porteranno le lancette al tempo dei vecchi difetti del settore, come la Jobs Bank, il programma che permetteva ai lavoratori iscritti al sindacato che venivano licenziati di percepire il 95% dello stipendio, divenuto quindi simbolo del corporativismo deteriore della union (e abbandonato poi col suo consenso nel 2008), o la COLA, letteralmente una “scala mobile mascherata da indicizzazione al costo della vita”, definizione che certamente molto ricorda ai lettori italiani.

Allo scenario apocalittico descritto da Howes può fare da contraltare il fatto che secondo alcune valutazioni il costo orario del lavoro con i nuovi contratti crescerà sì, ma non più di quanto era cresciuto prima del 2009. Come a dire che azienda e sindacato hanno imparato la lezione dalla crisi. Nonostante però la visione non certo lusinghiera per lo UAW, l’editorialista di Detroit colloca la sua riflessione nella dimensione più utile, non quella cioè del potere unilaterale, ma quella delle relazioni tra azienda e sindacato. Viene così in rilievo il supposto trade off tra qualità e quantità del lavoro che costituisce una questione essenziale del futuro del mercato del lavoro. Una questione portata effettivamente a galla dall’industria dell’auto, cartina di tornasole in quanto settore globalizzato e più soggetto all’innovazione nella più ampia manifattura. In queste condizioni può davvero la classe media tornare a crescere? Può farlo recuperando livelli e dinamiche salariali più simili al passato? Possono le relazioni industriali sul modello americano costituire un esempio per raggiungere questo obiettivo? I prossimi quattro anni offriranno buoni spunti per una risposta.