Ai critici che gli rimproverano come gli Stati Uniti siano ridotti sulla difensiva, al fronte della Prima Guerra Globale, Siria, Iraq, Afghanistan, Yemen - dove Isis debutta con l’attentato contro l’hotel Al Qasr di Aden, quindici morti, obiettivo la coalizione a guida saudita - il presidente Barack Obama potrebbe replicare citando i recenti successi diplomatici. Ricordare il disgelo con Cuba ultima piazzaforte della Guerra Fredda, il patto nucleare con l’Iran che riallinea il Medio Oriente, il patto di libero commercio nel Pacifico che stringe intorno a Washington il Giappone e gli altri Paesi innervositi dalla postura militare cinese.
Successi indubbi di cui il premio Nobel alla Casa Bianca potrà vantarsi nella dozzina di mesi che gli resta alla presidenza. Risultati, però, strategici, che daranno frutti negli anni a venire, dopo lunghe manovre, rischi, attese. La brillante offensiva tattica del leader russo Vladimir Vladimirovic Putin in Siria invece, con il rafforzamento della superstite base navale del Mediterraneo a Latakia, la mobilitazione di un contingente militare, i raid aerei (contro Isis secondo la propaganda dei media filorussi, in realtà contro i ribelli anti Assad), i missili SS-300, cambiano in peggio il calderone siriano.

Per ogni bandiera antiamericana, Iran, Hamas, Hezbollah, Isis, Qaeda, talebani, fondamentalisti, il messaggio è chiaro, la Russia sarà pur frenata dal calo del petrolio, il rinnovamento delle forze armate di Mosca non le porta ancora al livello americano, ma la spregiudicatezza del Cremlino mette in scacco l’eterna irresolutezza dell’Amleto Barack.

Il presidente Obama può ripetere che l’opinione pubblica Usa - alle prese con un’astiosa campagna elettorale, dove il populismo di destra di Donald Trump e l’utopia socialista di Bernie Sanders si contendono la scena, a sorpresa - vuole solo che l’anemica ripresa economica si irrobustisca, senza accendere nuove avventure di guerra in Asia. Tutto vero, ma un leader capace di strategia guida il Paese, non ne subisce la deriva verso l’isolamento. Wilson impegna gli Usa nella creazione di una comunità internazionale, Roosevelt li prepara e guida in una guerra non voluta, Nixon apre alla Cina e chiude col Vietnam, Clinton crede nel mercato senza frontiere, malgrado il no dei sindacati filodemocratici.

Le nostalgie per la Guerra Fredda, che si diffondono ora come una moda, dimenticano che era il regno della paura nucleare, a noi occidentali garantiva libertà e sviluppo, al resto del mondo fame e dittatura. È l’America che manca ai suoi doveri nel 2015, l’America che ora lo Stato Maggiore vorrebbe restasse a Kabul ben oltre la deadline 2017, segnata con troppa fretta, come in Iraq, da un Obama con lo sguardo alle promesse elettorali, non alla realtà dura. La caduta di Kunduz, prima capitale di provincia in mano talebana dal 2001 e le divisioni nel governo del presidente Ghani, confermano che senza americani il Paese tornerà in pochi mesi al fondamentalismo e alla guerra civile. La Cina costruisce isole artificiali per allargare la propria influenza, controllando le autostrade del mare nel Pacifico da cui passa quasi la metà dei commerci mondiali, crocevia che da 70 anni la U.S. Navy tiene libero: Washington terrà o cederà anche nei mari cinesi? E interverrà sul mercato nero degli ordigni nucleari ai terroristi di cui si torna a sentir parlare?

L’assenza di Obama, la confusione petulante della campagna elettorale 2016, non offrono agli alleati - europei, asiatici, Nato - indicazioni strategiche serie. Né in Europa appare un leader capace di unificare il vecchio continente sulle sfide in corso, rappresentando con forza in America il bisogno di strategia. Occidente è una maschera senza idee, Nato un’armata sperduta nel Deserto dei Tartari, l’alleanza America-Europa il mercatino dove si litiga per le fotine dei teenager su Facebook, non per assicurare libertà e giustizia.