I nuovi poveri non sanno comportarsi da poveri. Vanno alle mense “bank food” con gli abiti che, solo pochi mesi fa, indossavano per andare a lavorare negli alberghi, nei terminal delle compagnie aeree, alle grandi catene di noleggio auto, negli uffici di scuole, banche, parchi divertimento alla Disney, chiusi dalla pandemia Covid-19. Quando li guardate in coda, con le auto pulite, non vecchi macinini cadenti, la felpa di moda comprata online l’anno scorso, il loro sguardo vi sfugge, concentrato sul cellulare, per barattare il contratto mensile fisso che spesso le ditte pagavano, con tariffe ridotte, chiamate WhatsApp senza scaricare video o audio. In aprile, in uno dei suoi tradizionali show politici, il presidente Donald Trump fece inviare a milioni di cittadini un sussidio fiscale di 1200 dollari, sotto forma di assegno con la firma in grassetto “Donald J. Trump”. I nuovi poveri, vittime del Covid, lo hanno speso subito in cibo, per i loro familiari. Le spese sono state tagliate, niente Netflix o elettronica del Black Friday, pizza o pomeriggio al fast food - la brillante campagna pubblicitaria di Burger King, “mangiate da McDonald”, nasce dal crollo dei profitti nei ristoranti popolari, detestati in Europa come sponsor di colesterolo, zuccheri e grassi animali, ma che invece spesso negli Usa mantengono, con menu a basso prezzo, tante famiglie. I vecchi poveri li riconoscete perché raccolgono i coupon di sconto, due panini al prezzo di uno, una Coca grande al 50% e computano come riempire di più lo stomaco pagando il meno possibile. I nuovi si vergognano.

Ma se è possibile tagliare il costo della nuova serie tv, magari chiedendo ad amici o parenti di condividere lo schermo, i pasti non si possono saltare, o almeno non troppi in fila. Oggi l’America, il paese che spende in difesa più di tutti i rivali insieme, che ha sprecato nelle guerre effimere di Iraq e Afghanistan 6400 miliardi di dollari, 5,3 miliardi di euro, che avrebbero ricostruito scuole, ospedali e infrastrutture in tutti gli Usa, vede la fame tornare. Eletto con una valanga di voti nel novembre del 1964, il popolare presidente democratico Lyndon Johnson dichiarò la sua “War on Poverty”, guerra alla povertà, l’8 gennaio dello stesso anno investendo in sanità, pensioni, istruzione, edilizia pubblica e ottenendo certo ottimi risultati, salvo vedere un altro conflitto, lo scontro in Vietnam, distruggere le sue riforme sociali, costringendolo a non ripresentarsi nella corsa per la Casa Bianca 1968. Allora un americano su 4 era considerato povero, oltre il 26%, Johnson tagliò la quota a sotto il 20%. Il presidente Kennedy aveva letto il saggio dello studioso e attivista Michael Harrington “The Other America”, l’altra America, sulla miseria in patria e ne era rimasto impressionato, coinvolgendo il suo vice in una nobile crociata.

Nelle prime settimane del 2020, quando l’autorevole settimanale britannico The Economist previde -auch!- l“Incubo Americano”, sfida elettorale fra Trump e il senatore socialista Sanders che, di questo erano certi i columnist della City, si sarebbe conclusa con la vittoria di Trump, la situazione economica del paese sembrava assai diversa dalla coda di 50 chilometri che a Houston, nel poderoso Texas repubblicano, ha visto le automobili in attesa per un pasto gratis, tacchino surgelato, verdure e tortina, da ricevere giovedì scorso, per la tradizionale cena familiare del Ringraziamento.

Il boom della Borsa seguito ai tagli fiscali di Trump, l’innovazione digitale dopo la crisi finanziaria 2008 e i piani di investimento del presidente Obama avevano ridotto ai minimi storici la povertà americana, cifre che avrebbero deliziato il presidente Johnson. L’occupazione volava, la paga base, 7,25 dollari l’ora, vergogna che Biden spera di cancellare aumentandola, era spesso superata in alto anche per i lavoratori manuali non specializzati, l’assistenza malattia, rafforzata dalla mutua nazionale detta “Obamacare”, riduceva ulteriormente i costi per le famiglie. I “food stamp”, tessere annonarie per i poveri introdotte da Johnson, che il presidente Reagan, ingiustamente, irrideva “le Regine del Welfare guadagnano 150.000 dollari l’anno a spese nostre!”, citando il caso estremo della Linda Taylor, una truffatrice seriale sospettata anche di omicidio, davano una mano a tanti. Grazie a tutte queste positive circostanze, e con le aziende a chiedere manodopera per crescere, la percentuale di americani che le statistiche considerano “poveri” era scesa dall’11,8% del 2018 al 10,5% del 2019, record minimo dal 1959, quando, sotto il presidente repubblicano Dwight Eisenhower, si presero a tabulare i numeri dei bisognosi.

Sempre meno bambini americani andavano a letto senza cena, sempre meno vivevano solo grazie ai pasti distribuiti dalle scuole, un quarto di latte e cereali a breakfast, il vassoietto di stagnola con il sandwich al burro di arachidi, il minuscolo hamburger, la scodella con i “macaroni and cheese”, pastina col formaggio, la mela, i crackers. Covid ha scardinato questo equilibrio, brutalmente. Lo scorso mese, una serie di rapporti ha impressionato l’America, pur ipnotizzata dalla campagna elettorale tra Trump e l’ex vicepresidente democratico Joe Biden, che alla fine ha prevalso per sette milioni di voti. Subito dopo la pandemia, il Congresso aveva lanciato sussidi per 2000 miliardi di dollari, il Cares Act degli assegni in brossura di Trump, con un benefico effetto su almeno quattro milioni di poveri che si erano visti depennare dalle statistiche della miseria. Non appena il temporaneo impatto estivo si è esaurito, e malgrado la Borsa continui a crescere e il mercato del lavoro sia in una qualche, sia pur flebile, ripresa, la trappola della povertà è scattata ancora. Uno studio della Columbia University, lo scorso ottobre, calcola che siano 8 milioni i nuovi poveri americani, che hanno passato il Thanksgiving, il Ringraziamento, in ristrettezze. Una parallela ricerca delle Università di Chicago e Notre Dame ha risultati analoghi, stimando in sei milioni i poveri da Covid, in gran maggioranza, neri, ispanici e famiglie con bambini. Il ministero del Lavoro, scrive il New York Times, calcola che 886.000 persone si siano iscritte alle liste di disoccupazione, con un aumento ritmico di circa 77.000 ogni settimana.

Le organizzazioni umanitarie, religiose e laiche, vedono mettersi in coda alle mense membri del ceto medio, che si mischiano con imbarazzo a senzatetto, vagabondi, migranti. “Chi vive da anni delle nostre tavole -racconta un volontario cattolico che partecipa a un programma promosso dai frati francescani- ha nella raccolta del pasto uno dei pochi momenti umani della giornata, fa battute con i nostri addetti, scherza con un amico che non vedeva da tempo, è abituato alla povertà e non se ne vergogna. I nuovi poveri, che l’anno scorso avevano un lavoro, programmi per il futuro, qualche risparmio bruciato in fretta, accompagnano ai disagi l’umiliazione di dover portare ai figli le nostre razioni, togliere loro cellulari e videogames, non poter programmare doni a Natale, vacanze, dire “Niente college universitario, devi lavorare”.

I racconti di questa discesa nell’indigenza sono una tragedia americana senza fine: l’automobile non venduta “chi mai mi darebbe un lavoro in California senza un’auto per spostarmi?”, solo al prezzo di tagliare il gas e vivere di cibi freddi, cereali in scatola, o scaldati al forno a microonde; la moglie che va nelle cliniche della fertilità per vendere gli ovuli a donne abbienti in cerca di maternità, centri come Bright Expectations pagano fino a 8000 dollari; gli hobby che svaniscono, i ferri del garage venduti su eBay, con i libri e le foto dei bisnonni, un orologio cipollone da tasca dell’Ottocento.

I conservatori, eredi di Reagan che temeva le Regine del Welfare spendessero i food stamp in vodka,obiettano che la povertà è una convenzione e, spesso, i sussidi sono più cospicui di quanto le ricerche non colgano. Ma oggi la povertà è assai più che un pasto, non avere accesso a telefono o wifi taglia fuori dal mercato del lavoro, dalla scuola, dalle relazioni affettive e familiari e, intanto, la caduta del mercato e i licenziamenti hanno riportato la fame, la fame nera dei romanzi di Dickens, in tante case. Un’inchiesta del quotidiano Washington Post rivela che un numero record di cittadini salta almeno un pasto la settimana, non per diete eccentriche, ma perché non ha abbastanza soldi per fare la spesa: non era più accaduto dal 1998, quando i benefici della globalizzazione e del commercio con l’estero avevano aperto due decenni di prosperità.

Il Census Bureau, che raccoglie censimenti e stime sul paese, documenta in un suo rapporto che un americano su otto salta i pasti per miseria, 26 milioni ogni giorno. Le case dove vivono bambini hanno numeri peggiori, una su sei non ha abbastanza soldi per breakfast, pranzo e cena. Tra gli afroamericani la pandemia semina ancor più pena: 22% delle famiglie denuncia di aver sofferto la fame nella settimana del Ringraziamento, poco meno di una su quattro, due volte peggio della media del paese e due volte e mezzo la media dei bianchi.

Le testimonianze, a pochi giorni da Natale, son struggenti, i fratelli che hanno ancora un lavoro a mandare scatolette e surgelati ai fratelli disoccupati, le mamme che allungano il latte con l’acqua senza che i figli le vedano, gli anziani che, seduti come per caso a un caffè, aspettano qualcuno che intuisca il loro disagio e offra un caffellatte, la maestra che distribuendo i pasti per gli scolari vede gli occhi lucidi della mamma con il bambino in età non scolare e, rischiando rimproveri, le consegna tre sacchetti di cartoncino marrone colmi di cibo.

Il presidente Biden si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio e la sua agenda sarà brutale, Covid, Iran, Cina, economia, Europa, Putin: spero che qualcuno dei suoi ministri, a partire dalla segretaria al Tesoro Yellen, gli ricordi gli affamati, che penano nella grande potenza Usa, per un piatto di polpettone di carne tritato dagli avanzi, una scodella di latte, due pezzetti di pollo fritto e grits, la polenta del Sud americano, con il gravy, l’antico sughetto dei quartieri poveri e dei campi sperduti.