Nel codice americano, capitolo 18, sezione 1503, si definisce «obstruction of justice» «ogni lettera o comunicazione che influenzi, contrasti, impedisca la legittima amministrazione della giustizia o si renda complice in tal senso...».  

Ieri, nel corso dell’audizione al Senato dell’ex capo dell’Fbi James Comey, licenziato dal presidente Trump nel bel mezzo dell’inchiesta Russiagate, milioni di americani hanno cercato di capire se la Casa Bianca abbia, o no, violato il capitolo 18 sezione 1503, intralciando la giustizia e, fedele, Google Trends ci segnala boom di ricerche online su «obstruction of justice».  

In un Paese che si fonda sulla legge, dove il diritto segna il progresso economico, civile, umano, prima della politica, che un presidente cerchi di intorbidare le acque in un’inchiesta è abuso intollerabile. Il diritto americano non ha, in pratica, strumenti penali per incriminare un presidente in carica e due memoranda ufficiali del Dipartimento della Giustizia, 1973 e 2000, hanno confermato che «un presidente gode, durante il mandato, di immunità costituzionale dall’essere rinviato a giudizio o processato penalmente», in teoria si dovrebbe attendere la fine del mandato, per aprire il procedimento. Sola eccezione possibile l’articolo II, sezione 4 della Costituzione, che riguarda ogni cittadino, incluso il presidente passibile di «impeachment», incriminazione, con il Senato come giuria e il Chief Justice della Corte Suprema come magistrato (il 25 emendamento pensa piuttosto a sostituire un presidente malato, non macchiato di un reato). 

Nel faccia a faccia tra Comey e il Senato la posta in gioco era dunque l’«obstruction of justice», i democratici persuasi che il presidente abbia cercato di insabbiare l’inchiesta contro l’ex consigliere per la sicurezza Flynn, ricattando Comey con il licenziamento, i repubblicani a dipingere un Trump bullo, ruvido, ma lontano dalla ghigliottina dell’articolo II, sezione 4. Tanti invece parlano di impeachment, ignari che nella storia americana, dal 1776 a oggi, solo due presidenti sono stati impeached, Andrew Johnson nel 1868 e Bill Clinton nel 1998, entrambi assolti.  

In assoluto, secondo il sito Intercept, solo 13 giudici sono stati rinviati a giudizio dalla Camera, che funge da pubblico ministero, quindi appena 15 casi di «impeachment» in due secoli e mezzo, percorso assai stretto. Il presidente Richard Nixon, vecchia volpe, fiutò l’aria pestifera quando la Camera era pronta a rinviarlo al Senato e si dimise, venendo poi graziato dal successore Ford, che per risparmiargli l’inevitabile processo penale gli concesse il perdono, inimicandosi a vita gli elettori. Niente impeachment sul Watergate. 

«Ostruzione della giustizia» è reato difficile da provare, tanto più se tocca il capo del governo e delle forze armate. Bill Safire, ex collaboratore di Nixon e poi editorialista conservatore del «New York Times», provò per anni, invano, a addossarlo a Bill e Hillary Clinton sulla presunta speculazione immobiliare del Whitewater. «Scooter» Libby, consigliere di Bush figlio, fu condannato invece per «obstruction of justice» nella vicenda delle armi segrete di Saddam Hussein e della spia Cia Plame, e malgrado il presidente gli abbia evitato la galera, ha dovuto pagare una multa di 250.000 dollari perdendo la toga di avvocato per sempre. 

I lettori non cadano dunque nel tranello di contare i giorni dell’amministrazione Trump. È vero che il presidente è ormai sotto il 40% nei consensi popolari, ma la sua base elettorale resta solida, e, a 17 mesi dal voto di midterm, i parlamentari repubblicani non hanno, per ora, voglia di metterlo sotto accusa. Quel che conta è seguire con pazienza l’inchiesta, che l’ex capo dell’intelligence Usa Clapper, definisce «peggiore del Watergate». Putin e la Russia hanno provato a inquinare il processo democratico dei rivali americani, con un attacco senza precedenti. I democratici son persuasi che la campagna repubblicana di Trump sia stata compromessa dal Cremlino, forse lo stesso presidente; i repubblicani condannano il blitz, ma escludono complicità del loro candidato o suoi tentativi di fermare l’inchiesta. 

La deposizione di Comey è solo un atto di una saga lunga e tormentata. L’ex capo Fbi ha dato a Trump del «bugiardo», Trump ha fatto replicare dal suo legale che potrebbe denunciarlo per soffiate ai media, dando a lui del mentitore. La democrazia americana s’è messa a nudo in diretta mondiale, come Mosca o Pechino non potrebbero mai. Ma ancora troppi segreti sono celati a Washington, troppi veleni in circolo online, perché sia già acclarato che la giustizia non è stata «ostruita» e che il presidente è definitivamente fuori dai guai.