Natale e Capodanno parlano di futuro, Fede e Cenone ci invitano a guardare avanti, abitudine perduta nel paese. Ricordo quindi i libri che, quest’anno, ci han parlato dell’impeto che il maestro di giornalismo Ugo Stille chiamava «La forza delle cose». Nate Silver ha scritto il più bel libro 2013, Il segnale e il rumore, (Fandango, pp. 670, €24,50). I Big Data, la realtà che abbiamo ogni giorno davanti frantumata in pulviscolo formidabile di informazioni, cancellano le tecniche del ‘900 quando politici, giornalisti, medici, scienziati, sociologi ragionavano su test, campioni di pochi casi da cui inferire, per intuito o deduzione alla Sherlock Holmes, le conclusioni. Lo storico Carlo Ginzburg parlava di «paradosso indiziario», interpretare la realtà da un dettaglio, per il cacciatore il ramoscello spezzato sul sentiero dalla selvaggina, per il critico d’arte la foggia di un polpastrello che permette di attribuire l’opera a un pittore. Oggi, spiega Silver, disponiamo invece di «tutte» le informazioni possibili, non solo di un campione limitato. Tutte le mail degli elettori, i segnali di terremoto, le previsioni del tempo, il flusso del traffico nelle città, i casi di epidemia, le giocate, riuscite e no, di un calciatore. Ragioniamo sulla complessità, non la semplicità. Eppure, con umiltà, Silver – che ha previsto gli esiti delle presidenziali Usa 2012 con impressionante precisione - anticipa le obiezioni di studiosi come Morozov sull’arroganza onnipotente della rete, e spiega come i Big Data a poco servano senza l’interpretazione attenta, paziente e creativa di uomini e donne. Il fattore umano resta cruciale, dispone di una nuova arma formidabile, ma deve comprenderla con saggezza. 

 Tom Standage, caporedattore web dell’Economist, traccia in Writing on the wall (Bloomsbury, pp. 288, 14,99 sterline) 2000 anni di storia dei social media, e sorprende chi crede che la cultura social nasca con Wikipedia, Facebook e Google. Standage racconta come Cicerone, San Paolo e Martin Lutero giocassero con una capillarità e una velocità di diffusione sul territorio sorprendenti: maestri «social» prima della rete. 

 Che tra passato e futuro non ci sia cesura sembra oggi eresia, la fine della crescita e del benessere, il logorarsi delle leadership globali, ci rendono nostalgici di un passato dorato mai esistito o, al contrario, ottimisti in un futuro pop digitale da videogioco. Bill Clinton dice che per comprendere il futuro si deve leggere La fine del potere di Moises Naim (Mondadori, pp. 394, €20), e ha ragione. Naim analizza il declino della forza con cui presidenti, capitani di industria, intellettuali, capi religiosi, provano a governare un pianeta atomizzato in tribù rivali, dove un ragazzino in rete fa tremare corporations, una dichiarazione incauta crollare la Borsa, le false notizie studiate da Farida Vis, precipitare governi e reputazioni. Nel 2008 il presidente americano Obama era il Messia della palingenesi americana. Oggi è la solita anatra zoppa del secondo mandato alla Casa Bianca, con indice di gradimento in crollo. Tra gli elettori maschi bianchi non ha maggioranza in nessuno stato Usa. Fine del potere. 

 In Italia l’analisi di Silver e Naim trova un laboratorio perfetto. Abbiamo logorato il potere di Prodi in due governi, 1996 e 2006, poi esaltato Monti e i suoi tecnici per stancarcene con impazienza da adolescenti, infine quello che Gianfranco Fini chiama Il ventennio di Berlusconi nel suo saggio Rizzoli (pp. 252, €18) culmina non in politica, ma con la condanna del fondatore di Forza Italia e l’espulsione dal Senato. Giovanni Orsina, della Luiss School of Government, ne Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio, pp. 239, €19,50) dimostra con evidenza scientifica quel che da anni ipotizziamo, che cioè Berlusconi e il suo movimento non siano un incidente, malattia infantile della nostra democrazia, Partito di Plastica imposto a suon di spot tv al popolo bue dei centri commerciali, ma rispondano invece a una profonda natura degli italiani, ancestrale cultura storica. L’opposizione alla sinistra, la critica all’antifascismo, l’antipatia per il 1968 e la simpatia per il consumismo, la debolezza della destra liberale da Cavour a oggi (annotata da Fini con amarezza) alimentano Forza Italia, ancora oggi forte di un 25% nei sondaggi. La plastica non dura tanto.  

 Tocca adesso a Matteo Renzi creare l’alternativa a Berlusconi e al populismo formidabile di Beppe Grillo, con un’agenda per lo sviluppo redatta prima che la sua freschezza avvizzisca. Legga La nuova geografia del lavoro di Enrico Moretti, (Mondadori): ancora oggi possiamo conquistare, non perdere, occupazione, se la cerchiamo nell’economia del futuro, non nella ruggine passata. Perché se la ricetta economica di Papa Francesco può non funzionare ovunque e la sua analisi geopolitica sulla Siria non essere felice, il messaggio profondo del suo pontificato che commuove resta speranza, inclusione, umiltà. Un buon viatico per il 2014.