Dunque Erika Pioletti, 38 anni, che aveva accompagnato la sera del 3 giugno 2017 il fidanzato a piazza San Carlo, a Torino, a tifare Juve, è morta per i pochi grammi d’oro di una catenina da grandi magazzini, dunque centinaia di persone sono rimaste ferite, nel corpo e nell’anima, da una tragedia scatenata da una gang di ragazzi, italiani di origine maghrebina, cresciuti tra di noi, che vanno a scuola e parlano italiano.  

Sohaib Bouimadaghen, 19 anni, capo della gang, se queste parole hanno senso per un pugno di adolescenti sbandati, si vanta sui social media della bravata, seminare paura con uno spray urticante per rubacchiare, sfoggiando arie da veterano Isis. In un post su Facebook, il giorno dopo la mattanza, scrive fiero «C’è chi si alza senza la propria famiglia, sotto le macerie di una casa distrutta, senza acqua ne cibo, contro le più grandi forze mondiali». «Budino», così gli amici chiamano Sohaib, incalza «Prendi ciò che vuoi e tieni ciò che ahi, la gang non si infama mille modi per spenderli» e sfotte un compagno che, dal sangue e dal dolore, ha lucrato solo una felpa bianconera. 

Quella notte l’Italia intera ha vissuto una tragedia dove i dilemmi del nostro tempo, così frigidi nel chiasso dei talk show, balenano, lividi e inesorabili, con crudezza irriducibile. La violenza metropolitana, che innerva il dibattito sull’emigrazione, la seconda generazione incapace di integrarsi, una storica scuola della capitale piemontese, il liceo Avogadro, dove si formavano l’aristocrazia della classe operaia e volti celebri, da Claudio Lippi ai Righeira, a interrogarsi, stupita, sul cinismo di un allievo.  

Da piazza Castello i terroristi dello spray ripetono le gesta dello scippo di massa in giro per l’Europa, clonando la tecnica di paura e ruberie finché, grazie all’ottimo lavoro degli inquirenti, non sono individuati per le dissennate tracce che lasciano, al telefono e sui social, lieti del misero bottino. Che la povera Erika e le dozzine di feriti non siano diventati strage da fare impallidire i numeri degli attacchi terroristici di questi anni, fu puro caso, neppure la morte induce la gang a rinsavire. Chi studia il nichilismo del terrore islamista sa che queste personalità vuote, sradicate dal passato - Sohaib urlava le poche parole di dialetto arabo che conosce, come un richiamo della foresta perduto - ma incapaci di vivere nel presente, sono l’identità alienata di troppi, e basta poco perché inneschino tragedie. 

La confessione dei colpevoli non giustifica, certo, la pessima gestione della serata, o lenisce le responsabilità che un processo accerterà, della pubblica amministrazione e degli organizzatori coinvolti. Ma il dolo raddoppia la pena di chi ha sofferto in quelle che dovevano essere ore di passione sportiva, riaprendo, per le vittime e i familiari, l’angoscia. Una ragazza, scampata a stento dalla calca con una pesante diagnosi medica, scoppiava ieri a piangere nell’apprendere, dal sito di questo giornale, che non il fato l’ha travolta, ma criminali teppisti. Magistratura e forze dell’ordine vanno elogiate per aver perseguito una difficile inchiesta, legando con pazienza indizi frammentari (si poteva magari evitare la frusta polemica con i politici che si difendono dai processi, ma i tempi sono questi). Ora la giustizia deve, in seri dibattimenti, indicare le colpe, penali e civili, assegnando le pene con severità. A noi tutti compete invece un altrettanto severo esame di coscienza, su che cosa sono le nostre metropoli, come viviamo nelle nostre comunità, perché culture diverse e diverse tradizioni stentino a coesistere senza ostilità. Sohaib ci indica un fallimento comune, non va ridotto a «mostro», ma considerato esempio negativo di una gioventù che non dobbiamo far diventare, a tutti i costi, «normale». Lo dobbiamo a Erika e alle altre vittime di quella notte.