George Hardwood e Evangeline Walker, studenti dell’Università di Leicester, hanno calcolato quanta carta occorre per stampare tutte le informazioni, la cultura, gli algoritmi astratti, i pettegolezzi, le banalità, la vita quotidiana, i giornali, le biblioteche, insomma quante pagine avrebbe il Libro Grande Come Il Web. La risposta è, vi risparmio i calcoli di Business Insider, 136 miliardi di pagine, formato fogli extra strong, copia dei 5 miliardi di pagine web. Un libro difficile da rilegare in cuoio marocchino e frontespizio, sarebbe alto 5200 chilometri, 580 Everest uno sull’altro. La sola Wikipedia, ubiqua enciclopedia online, occupa un tomo da Ciclope, 70.859.865 pagine. L’ultima edizione di carta dell’Enciclopedia Britannica, i vecchi rassicuranti volumoni marron scuro e iscrizioni oro, è stata stampata nel 2010, aveva «appena» 32.640 pagine, un tascabile contro Wiki.

All’apertura della classica Fiera del Libro di Torino lo sforzo dei ragazzi di Leicester accende le fantasie, ci sentiamo Lillipuziani sotto una tale Torre di Babele della cultura digitale. Guardandola a naso in su, l’utopia del Libro Web Babele alto fino alle nuvole e oltre ci svela però l’errore che la nostra generazione commette all’alba dell’era web. Crediamo, come sempre è capitato ai nostri antenati davanti alle rivoluzioni culturali, che il web sia «la stampa in diversa versione», un’immagine sul video «l’equivalente pixelato di una miniatura da codice sacro del Medio Evo». Non è così, non sono cambiati solo i media, mutano, fragorosamente, i messaggi, mutiamo noi.

Consideriamo quel che accade al New York Times. Colpito, come tutti, dalla crisi, il Times ha puntato, sia pur in ritardo, sull’edizione digitale e si appresta ad abbonare il suo milionesimo cliente digitale, record fantastico. Eppure i guai di bilancio son lontani dall’essere risolti. Perché? I conti li fa Edmund Lee per il sito. Gli abbonamenti digitali fruttano tra 200 milioni, che, con la pubblicità generano circa 400 milioni di dollari (un dollaro 1,1 contro un euro). Tanti, ma non bastano a fronteggiare la perdita di copie del giornale di carta, ancor oggi maggior fonte di ricavi. Il Times vende 625.951 copie al giorno in edicola, nel 1994 toccò il record di 1,18 milioni di copie. Uno studio dell’istituto Pew osserva come gli abbonamenti digitali stiano ora pareggiando le copie di carte del record. Cosa vuol dire? Che la percentuale «culturale» di americani interessata al modo di dare, e commentare, le notizie del Times non è in realtà mutata in venti anni, web o non web. La rivoluzione viene da Facebook che diventa, a sorpresa, «edicola» dove i giovani trovano le notizie, oltre la metà degli under 30 si informa su Facebook. Nei media Usa si parla ora di accordo tra giornali e Facebook, sulla falsariga della razionale intesa che i maggiori giornali europei, tra cui La Stampa, hanno raggiunto con Google. I giornali creano contenuti, Facebook crea comunità, l’accordo è logico, anche se resta da discutere sui profitti della pubblicità.

Quando giudichiamo l’impatto culturale del web, sull’informazione, sui libri, sulla scuola, noi ripetiamo l’errore dei nostri antenati. Socrate malediceva la scrittura, che avrebbe stroncato l’unico modo di ragionare che amava, il dialogo. Girolamo Squarciafico, capo redattore del grande editore Aldo Manuzio a Venezia, era persuaso che «i troppi libri» avrebbero distrutto la cultura «come si fa a leggerli tutti?». Il filosofo Adorno, mezzo millennio dopo, condannava jazz e pubblicità, virus contro la musica e la cultura classica. Ogni innovazione, il romanzo, il teatro, l’epica, i giornali popolari, la radio, la tv, il cinema, la fotografia la scuola di massa, ha avuto - la lista tragicomica allinea santi, baroni universitari, premi Nobel - i suoi profeti di sventura, certi che «la cultura» fosse spacciata.

Non è così, libri e giornali (sì, anche di carta) continueranno, siamo noi a cambiare. Socrate aveva ragione, perdendo la cultura orale abbiamo perso una tradizione nobile, come la miniatura, la pergamena, l’epica recitata a memoria al suono della cetra. Prima della stampa non si leggeva «con gli occhi», come facciamo noi, le righe sui libri medievali erano troppo strette e vicine per non perdere il filo alla fioca luce disponibile, si leggeva dunque ad alta voce, una biblioteca era rumorosa come un mercato, non il luogo sacro dove una sola parola richiama shhh di rimprovero. Nuove tecnologie ci forzano a pensare, leggere, scrivere in modo diverso. La rivoluzione non è dunque tecnologica, è culturale. L’Europa cerca di castigare Google, il blogger Andrea Stroppa ha spiegato su Huffington Post perché sbaglia, il futuro non si regola per decreto. L’Inquisizione impose infine controlli sui libri di Venezia e l’industria emigrò ad Amsterdam e Londra. Accadrà ancora?

C’è nel vecchio continente una riserva immensa di cultura e talento. Un poeta italiano, Nanni Balestrini, ha scritto la prima poesia al computer, Tape Mark I nel 1962, e a chi lo contestava «non è bella», ribatteva geniale «Volevo sentire la voce della macchina, bella o no». Oggi i computer scrivono libri, poesie, ma già nel 1967 in una conferenza meravigliosa, Cibernetica e fantasmi letta a Torino, Italo Calvino dava l’algoritmo perché un computer scrivesse romanzi, assicurando, per lo scandalo dei benpensanti, che si trattava di una buona cosa, non di una tragedia. Balestrini e Calvino anticipavano gli studi sull’intelligenza artificiale e le emozioni delle macchine, nessuno dei due aveva mai visto un personal computer, solo stolidi cervelli elettronici grandi come un Tir, ma erano capaci di intuire la storia.

Se cerchiamo informazioni e narrativa su Facebook e Google non è perché la carta ci ha stuccato. È perché il modello verticale, un Autore tanti Lettori, è tramontato, l’opera torna di comunità, come la Bibbia, l’Odissea, il Mahabharata, capolavori scritti da tanti autori. Il sapere collettivo è bellissimo, perché siamo «animali sociali», brand Aristotele, ma può essere bruttissimo, perché siamo «lupi dell’uomo», brand Hobbes. Ogni giorno il sapere «social» degenera in leggenda urbana, menzogna che troppo propalata diventa dunque «vera»: autismo da vaccino, Ogm killer, scie chimiche misteriose.

Non sarà Periscope, né l’e book tridimensionale, né l’informazione personal modello Circa il campo di battaglia della cultura web. Sarà la sfida tra chi abusa la comunità digitale per il Male, e chi prova a contrastarlo con la tolleranza e la democrazia. L’esito della battaglia online, come a Maratona, Lepanto, in Normandia, non è scontato.