Che confusione questi numeri sul lavoro. Dopo una serie ininterrotta di dati incoraggianti, tanti che ormai non si contano centri studi, imprese e opinionisti che abbiano scommesso che la ripresa è davvero iniziata, ecco i dati mensili dell’Istat su disoccupazione  e occupazione. Nessuna possibilità di interpretazione tendenziosa: gli indicatori sono tutti negativi: crescono i disoccupati, diminuiscono gli occupati, e aumentano anche gli inattivi. Scenario reso ancora più amaro dal fatto i Paesi d’Europa con i quali l’Italia si deve confrontare a livello competitivo vanno complessivamente meglio.

Varrebbe la pena di chiedersi che cosa stiano capendo gli italiani di quello che sta succedendo. Alla comprensione sicuramente non contribuisce la fretta con la quale il Governo ha scelto di comunicare in anticipo i dati sulle comunicazioni obbligatorie (79mila contratti a tempo indeterminato in soli due mesi). Come ha chiarito lo stesso istituto, si tratta di dati inconfrontabili con quelli dell’Istat. Ciò non di meno le due rilevazioni non possono che stridere nella cognizione di chiunque.

Dire che i dati sui nuovi contratti siano stati diffusi più con l’obbiettivo di infondere fiducia che di dimostrarla, non significa necessariamente trovarsi a proprio agio nell’habitat naturale dei gufi. Semmai serve a ricordare che tutti gli indicatori positivi di cui viene frequentemente riportato sui giornali (giusto: sono notizie) riguardano trend dell’ultimo breve periodo.

Gli ultimi negativi dati mensili suggeriscono semplicemente di evitare di lasciarsi andare a entusiasmi eccessivi, con il rischio di illudersi che per agganciare, già in ritardo, la ripresa europea, non serva rimboccarsi le maniche, ma semplicemente aspettare gli effetti benefici delle riforme del governo.

Allo stesso tempo i numeri su disoccupati e occupati confermano quanto sia necessario non forzare i tempi delle analisi e delle diffusioni e aspettare almeno le elaborazioni trimestrali delle comunicazioni obbligatorie. Converrebbe forse attendere anche di più e in qualche modo è lo stesso Governo a dirlo. L’esecutivo è impegnato da tempo in un gioco di difficile equilibrio, stretto tra la tentazione di rassicurare psicologicamente i cittadini, dicendo che si è imboccata una irreversibile svolta, e contemporaneamente educare lo sguardo al timing del #passodopopasso, dei #millegiorni.

Che serva tempo gli esperti lo sanno bene e lo ha ricordato anche il responsabile per l’economia del PD Filippo Taddei: l’occupazione segue il ciclo economico con almeno sei mesi di ritardo. Tuttavia, non per loro eccessiva colpa, nel racconto renziano i cittadini si aspettano un miracolo automatico. Una comunicazione più efficace nel lungo periodo dovrebbe invece tendere a dire che le cifre significative osservate in questi ultimi mesi indicano che “se si continua così, l’Italia ce la può fare”, ma non senza che ognuno faccia la sua parte. Intanto però il Belpaese è già in ritardo e se i dati sulle comunicazioni obbligatorie poco ancora ci dicono rispetto ai contratti attivati (sono nuovi posti di lavoro? Chi sono gli interessati?) i dati dell’Istat che hanno colpito di più possono invece  indicare che ciò che ancora manca alle politiche del Governo è centrale. L’aumento della disoccupazione è dovuto sostanzialmente al calo della componente femminile. Aumentano gli inattivi, ossia coloro che non studiano né cercano lavoro. La disoccupazione giovanile sale ancora.

Niente di nuovo sotto il sole: proprio quest’ultimo dato ci ricorda la vera e propria piaga italiana 42,6%. Per i giovani le misure messe in campo con la legge di stabilità 2015, quelle che avrebbero prodotto la corsa al contratto a tempo indeterminato nei primi due mesi di quest’anno, rischiano addirittura di giocare sfavorevolmente. I generosi incentivi infatti non sono condizionati all’età degli assunti e favoriscono quindi naturalmente chi sul mercato ha maggiore esperienza. D’altro canto gli incentivi dedicati solo ai giovani (come quelli riservati ad altre fasce svantaggiate) non hanno mai riscosso particolare interesse da parte delle aziende. L’esperienza degli incentivi predisposti dal governo Letta ne è stata l’ultima chiara dimostrazione.

Per i giovani serve quindi altro: politiche attive e buona scuola. Quanto alle prime, far partire davvero Garanzia Giovani, della quale anche il Premier si è recentemente detto insoddisfatto, non è solo un logico appello di fronte alle ingenti risorse messe a disposizione dall’Europa. E’ ormai una scelta obbligata se si vuole evitare che i 242mila giovani (ultimo dato ministeriale) che si sono iscritti senza aver ricevuto alcun tipo di risposta, facciano ritorno nell’inattività, un’inattività da cui sarebbe ancora più difficile farli uscire.

Quanto alla scuola, lo ho ricordato Federico Fubini su Repubblica, l’Italia presenta quasi due persone su tre età da lavoro che non hanno studiato oltre la terza media. I report Ocse ci dicono che il nostro Paese detiene il record del cosiddetto skill mismatch, ossia del disallineamento tra fabbisogni di competenze espressi delle aziende e competenze possedute da chi offre lavoro. Suona quasi banale, ma all’Italia serve formare i giovani per mestieri che sul mercato sono richiesti. E’ il modo migliore per prevenire la dispersione scolastica, ma vale anche quando si tratti di livelli di formazione universitaria, quella in grado di fare l’innovazione di cui ci sarebbe bisogno e di cui abbiamo già parlato.

Prendere sul serio i nuovi dati sulla disoccupazione giovanile non significa neanche in questo senso fare gli uccelli del malaugurio, ma semmai proprio dire che Renzi ha ragione quando afferma che “sulla scuola ci giochiamo il futuro”.

Il disegno di legge sulla buona scuola, che è stato finalmente pubblicato, secondo gli appassionati di alternanza scuola-lavoro ha proprio nella sezione “Scuola, lavoro e territorio” una delle parti potenzialmente più innovative. Secondo i ricercatori di ADAPT però, il processo di connessione tra le tre entità “non sarà facile, forse più lungo di quanto gli annunci lascino intendere”.

Intanto il Ministro Poletti ha detto che si sta affrontando l’ipotesi di un rifinanziamento del bonus contributivo della legge di stabilità. E nessuno può negare che l’Italia, come ha evidenziato Eurostat, sia tra i paesi dell'Unione con più alta incidenza degli oneri sul lavoro (il 28,2%). L’incentivo sembra però essere una buona ricetta, forse anche necessaria, ma emergenziale.

Bisognerebbe agganciarvi un cambio culturale della formazione e dell’investimento in capitale umano. Nonostante Taddei abbia detto più volte che il Jobs Act va in questa direzione, il capitale umano non è solo questione di numeri di assunzioni, ma anche di formazione e ricerca continua. Per i governi, come per le imprese e per gli stessi lavoratori, anche nell’emergenza serve lungimiranza, onde evitare che la soluzioni siano solo curative.