Il meeting Asia-Europa Asem di Milano cade in ore drammatiche. L’Isis islamica assedia Kobani ed è a 50 miglia da Baghdad. Il virus Ebola, ignorato colpevolmente, mette a rischio le nazioni africane e avanza su Usa ed Ue. Le Borse, scosse dalla fine della crescita, precipitano, -4,4% nella città ospite, -400 punti a Wall Street. In Cina una tonnellata di acciaio costa quanto una tonnellata di cavoli, 350 euro.  

 Al Fondo monetario la signora Lagarde, con tipica malinconia «cafard» francese, lamenta «la nuova mediocrità» e invano il vecchio leone del «Financial Times» Martin Wolf invoca riforme «che non verranno».  

 A render ancor più grave il momento, è la mancanza di realismo di leader fermi, come gli antenati un secolo or sono, a un mondo scomparso. Le opinioni pubbliche rincorrono cronache lontane, i giorni di 25 anni fa quando champagne e speranze scorrevano felici sotto le macerie del Muro di Berlino

 Il leader russo Putin, che dovrebbe vedere in Italia il rivale ucraino Poroshenko in un tentativo di mediazione del conflitto ad opera della cancelliera Merkel e del premier Renzi, arriva con il rublo ai minimi storici sull’euro. La faccia feroce di Putin, l’abilità tattica in geopolitica non nascondono ormai lo gnomo economico Russia. Il bluff giocato sul prezzo dell’energia si sgonfia, come muscoli agli steroidi, con il prezzo del greggio che perde 25 dollari e si ferma a 62 euro, mentre la rivoluzione shale gas libera gli americani dalla tagliola Medio Oriente. Mosca ha marciato in Crimea come a una parata, ma sono bastati pochi, malmessi, reparti ucraini, le sanzioni e un filo di risolutezza occidentale per fermare Zar Vladimir. Putin deve accomodarsi a partner subalterno di Pechino, cui ha già svenduto il gas per 30 anni. I suoi successori dovranno faticare non poco per ridare peso globale a una nazione logorata da conflitti etnici, economici, nazionalismi. 

 È stato il Giappone, nel 1941, a far crollare l’antico mondo coloniale, annichilendo gli imperi inglesi, francese e olandese, dopo aver umiliato gli americani a Pearl Harbor. Il sogno era la «Sfera di Prosperità Grande Asia», «ordine basato sui principi etici giapponesi», come ricorda lo storico Michael Burleigh nell’avvincente, e un po’ pittoresco, saggio «La genesi del mondo contemporaneo» (Feltrinelli). Oggi democratico, con il premier Abe intento a scoccare le «frecce» di riforma economica, il Giappone è ai ferri corti con la Cina sulle isole Senkaku-Diaoyu, ma cerca di migliorare i rapporti con Pechino ed evitare conflitti più aspri. Nel frattempo però ogni dissapore con Washington si dissolve, come per il Vietnam che compra nel 2014 armi dai vecchi nemici yankee. 

 È questo il dilemma strategico centrale per la Cina, rappresentata a Milano dal premier Li Keqiang che, secondo un rapporto di Hoover Institution, malgrado sia vecchio pupillo dell’ex presidente Hu Jintao, è adesso allineato con il presidente Xi Jinping. Xi aspira ad essere il nuovo Mao, leader capace di governare senza rivali. Ma deve persuadere i Paesi vicini che Pechino non userà violenza, come in Tibet o con gli studenti di piazza Tiananmen. Xi è stato abile, finora, a stancare gli studenti pro democrazia di Hong Kong, ma rivolte simili si moltiplicheranno in futuro e il partito deve trovare linguaggi nuovi e alleanze senza prepotenze. 

 I cinesi sorridono giustamente davanti alla definizione provinciale «Cina Paese emergente», il Pil asiatico ha sempre battuto quello europeo nella storia, tranne i due secoli e mezzo dalla rivoluzione industriale. Per essere davvero il «secolo asiatico» di cui parla lo studioso Mahbubani, il XXI ha però bisogno di una Cina in grado non solo di superare la produzione Usa, ma di laureare matematici, informatici, scienziati creativi, e qui Pechino resta indietro. 

 Infine l’India del neo presidente Modi. Il Nobel per la Pace 2014 Satyarthi onora il continente, ma ricorda anche i 5 milioni di bimbi servi della gleba, i 650 milioni di cittadini che cucinano su fuochi aperti tutti i pasti, con 4 milioni di morti premature. L’85% dell’India rurale non ha accesso costante all’energia elettrica. Contraddizioni che solo meno burocrazia, più mercato e tecnologia risolveranno. In guerra col Pakistan sul Kashmir, l’India ha bisogno di Usa ed Europa per lasciarsi alle spalle la millenaria povertà. Servono diplomazia e sviluppo, non la grinta invocata dai boss populisti: a cominciare da una soluzione immediata e concordata, che liberi i nostri fucilieri di Marina dalle accuse, rimpatriandoli di comune accordo, come giusto tra nazioni amiche, madri di cultura.