La legge delega sul lavoro, al secolo Jobs Act, si avvia a essere approvata definitivamente dal Senato nelle prossime ore; ma con l’iter parlamentare non si esauriranno le contestazioni. La prossima questione sulla quale si accenderanno polemiche è di facile previsione: a quanto ammonterà l’indennizzo dovuto al lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato? In altre parole quanto varranno economicamente le ormai famose tutele crescenti che costituiscono il corollario del nuovo contratto a tempo indeterminato? Proprio su questo perno rischia di avvitarsi lo scontro tra il governo e le parti sociali, più convinte della possibilità di un dialogo adesso che il confronto non può più tradursi in un ostacolo concreto per l’esecutivo. 

La questione non è di second’ordine, ma conviene chiarire un punto sul quale la sintesi giornalistica ha spesso giocato a sfavore della chiarezza. L’indennizzo di cui si dibatte è una misura che tutela non da qualsivoglia licenziamento, bensì da quelli illegittimi, ossia quei casi in cui, secondo il giudice, non ricorrano gli estremi per l’interruzione del rapporto di lavoro. Se il licenziamento è invece giustificato, il datore di lavoro rescinde il rapporto senza dover corrispondere alcun indennizzo. 

Il risarcimento in luogo della reintegra in alcuni casi di licenziamento illegittimo è di nascita recente: è stata la riforma Fornero a modificare in questo modo l’articolo 18 solo 2 anni fa. Nei licenziamenti economici ciò avviene in sostanza se la motivazione adotta dal datore di lavoro in realtà non sussiste, mentre nei licenziamenti disciplinari succede anche se il fatto contestato al lavoratore non è sufficiente a giustificare un provvedimento definitivo, perché il contratto collettivo applicato prevede una pena conservativa.

Questo è l’orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, ma che non ha determinato di per sé un’uniformità di giudizio. Il sistema è risultato infatti meno certo di quanto la linea teorica tenderebbe a far credere. Quello che denunciano i detrattori della riforma Fornero è lo spazio lasciato alla discrezionalità del giudice soprattutto nel caso di mancata tipizzazione delle condotte sanzionabili nei contratti collettivi. Inoltre il giudice determina l’ammontare dell’eventuale indennizzo tenendo conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche del numero di dipendenti, delle dimensioni dell’attività economica e del comportamento e delle condizioni delle parti, dimensioni queste ultime alquanto sfuggenti.

I sostenitori del superamento dell’articolo 18 argomentano quindi che l’ostacolo al licenziamento in Italia non sia direttamente economico, bensì risieda nell’incertezza normativa. Secondo questa impostazione l’intervento del Jobs Act non punterebbe tanto a favorire quell’imprenditore che volesse licenziare con un pretesto qualsiasi ma avesse paura di essere condannato al reintegro. L’obbiettivo sarebbe piuttosto quello di favorire quell’imprenditore che, convinto della giusta causa o del giustificato motivo, volesse licenziare. A questo imprenditore andrebbe garantita la “certezza del rischio”, potendo cioè rispondere alla domanda: “quanto pagherò se il giudice non mi darà ragione?”.

Qualcuno dirà che si tratta di un sostanziale ripiego: non potendo assicurare l’individuazione certa di diritti delle parti, si facilita il licenziamento monetizzando la tutela. La Cgil attende a questo riguardo il varo dei decreti per valutare se fare ricorso alla Corte Europea di Giustizia per violazione degli articoli 30 e 31 della Carte di Nizza che riguardano il licenziamento ingiustificato. L’articolo 30 stabilisce però solo che: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. L’Europa non fa coincidere  quindi “tutela” a “reintegra”. Dietro questa identità c’è piuttosto un’ idea del lavoro come posto, come prestazione situata, risultante da una momentanea composizione di un conflitto tra rapporti di forza. Le cose cambiano invece se si vede il lavoro come un’attività di mutua convenienza, se si sposta l’attenzione sul rapporto, che si corrompe e compromette con il venir meno della fiducia tra le parti. Fatto sta che l’indennizzo, come già avviene negli altri paesi Europei, diventerà la forma prevalente di tutela e su di essa bisognerà fare i conti.

Vista dalla prospettiva del lavoratore la quota dell’indennizzo dovrebbe quindi essere sufficiente a costituire un deterrente al licenziamento pretestuoso, tale che esso sia troppo oneroso.  Le indiscrezioni sulle intenzioni del governo dicono che si sta pensando a un indennizzo che corrisponda a massimo 1,5 mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, con un tetto a 24 mensilità. 

Comparare i regimi dei diversi Stati non è un’operazione immediata. Come evidenzia un Working Paper ADAPT, per quanto riguarda i criteri per la definizione dell’ammontare dell’indennizzo, si possono distinguere due gruppi di Paesi: quelli che prevedono un sistema di indicizzazione all’anzianità di servizio (Germania, la Danimarca, la Spagna, la Cina, e il Regno Unito) e quelli dove l’ammontare è stabilito dal Giudice (Giappone, USA, Francia e Svizzera). Nessuno di questi paesi raggiunge comunque un tetto di 24 mensilità, come già prevede la legge Italiana ancora in vigore (rif. Fornero). 

Trattandosi di tutele crescenti i casi nei diversi paesi vanno distinti poi, come ha fatto Deloitte, per per fasce d’età. In tutti i casi presi ad oggetto dalla società di consulenza, nel periodo precedente la riforma Fornero l’Italia risultava comunque il paese dove il licenziamento individuale aveva i costi più alti per l’impresa.

 

Il limite ai 24 mesi sarebbe però ragionevole, anche in chiave comparata, nel caso il governo decidesse di introdurre il cosiddetto otping-out, ossia lo possibilità per l'imprenditore di sottrarsi comunque alla reintegra ordinata dal giudice, convertendola in un risarcimento economico.

Una riflessione sulla misura dell’indennizzo non dovrebbe comunque fissarsi solo sulla dimensione risarcitoria, ma dovrebbe considerare il complesso di previsioni economiche per la disoccupazione involontaria. Il risarcimento andrebbe considerato in rapporto al più ampio contesto delle politiche passive e attive. Ammortizzatori sociali, ricollocamento, formazione: il Jobs Act tratta anche di tutto ciò. Non sarà insomma un decreto solo a rendere più efficiente ed equo il mercato del lavoro. Il governo ha anzi l’occasione di intervenire in maniera avveduta considerando gli effetti sistemici di ogni decreto. Una discussione frammentata non aiuterà il Governo a fare meglio. Ogni valutazione parziale sarà inutile.