Prima l’elezione di Matteo Renzi a segretario del Partito Democratico in primarie valanga. Poi il premier Enrico Letta che, dal suo account twitter @enricoletta, usa il più popolare social media dell’informazione per annunciare «Avevo promesso ad aprile abolizione finanziamento pubblico partiti entro l’anno. L’ho confermato mercoledì.
Ora in cdm manteniamo la promessa».  

La politica italiana si rimette in cammino, come se avesse finalmente sentito gli umori pessimi che arrivano dalla piazza, con picchetti, manifestazioni, scontri, e dalla rete dove crisi economica e frustrazione politica distillano veleni populisti, rancore, risentimento.

Già l’11 giugno del 1978, un’era della geologia politica or sono, in piena emozione per l’assassinio di Aldo Moro, gli italiani avevano chiesto con un fortissimo 43,6% dei voti l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. I partiti che rappresentavano il 97% degli elettori avevano dimezzato i consensi e la pattuglia dei radicali guidati da Pannella, Bonino e Adelaide Aglietta coglieva benissimo l’animo italiano.

I più giovani non ricorderanno forse neppure più che il finanziamento pubblico nacque come norma etica, di trasparenza, per rendere sana la vita politica. Nel dopoguerra i partiti maggiori, Democrazia Cristiana e Partito Comunista, furono a lungo finanziati dai referenti della Guerra Fredda, Washington e Mosca. Poi i leader di maggioranza ricorrono ai fondi neri e le prime pagine titolano sugli scandali «Trabucchi», 1965, e «Petroli», 1973. Riviste come L’Espresso e Panorama a sinistra, Il Borghese a destra, conquistano spazio denunciando mazzette e tangenti ai partiti. Si pensa quindi che bilanci chiari e fondi in proporzione ai voti liberino la politica dalla corruzione, ma già nel 1978, correttamente, la metà degli italiani dubita.

L’inchiesta Mani Pulite, la fine dei partiti storici, l’avvento di Silvio Berlusconi modificano il Paese, ma i soldi ai partiti rimangono. Finché il boom di Beppe Grillo e dei suoi 5 Stelle, le continue, grottesche, rivelazioni su malversazioni, spese mal gestite, ruberie spicce e perfino rimborsi regionali usati come rubare la marmellata della nonna nelle favolette di un tempo, non fanno capire che è ora di finirla. Va dato atto al M5S che la sua irruenza, che spesso non ci piace, ha però forzato gli altri partiti ad accelerare sul tema.

L’opinione pubblica italiana, disgustata da 35 anni, approverà la scelta del governo. Renzi non mancherà di segnalare la coincidenza con la sua leadership, Grillo alza i toni chiedendo al Pd di restituire 45 milioni incassati, gli uomini del vicepremier Alfano approvano, Forza Italia protesta, ma a mezza voce, si parla di un 2x1000 fiscale come contributo volontario. Era difficile fare altrimenti in questo clima, molti italiani sono persuasi che la corruzione sia «la causa» della crisi economica, e taglio alla spesa può forse soddisfare i moderati, mentre «duri e puri» chiederanno di più.

Dunque scelta ragionevole di Enrico Letta che, in qualche misura, può contribuire, se non a rasserenare il Paese, almeno a non incattivirlo ancor di più. Detto questo, con responsabile serenità, si deve però ricordare che la smodata fame di fondi dei nostri politici ha distrutto il patto tra elettori ed eletti che governa tantissime democrazie. Non dare un centesimo alle campagne non renderà il nostro dibattito più franco e leale ma rischia, in un futuro non lontano, di avvantaggiare cittadini influenti e lobby miliardarie. Non dimentichiamo che all’alba della nostra nazione si andava in Parlamento per onore, senza ricevere uno stipendio, finché le nuove classi, i braccianti, gli operai, gli artigiani, non imposero che i loro rappresentanti, popolari o socialisti, potessero essere eletti ricevendo un salario.

Quando in America la Corte Suprema ha cancellato i limiti ai contributi che singole aziende o lobby potevano offrire alle campagne elettorali, non si è avuta più trasparenza, ma più pressione dei dollari sui voti. Gruppi come la lobby delle armi, Nra, o la famiglia Koch, investono sui candidati vicini alle loro posizioni, ma anche contro i politici a loro avversi e spesso determinano i risultati a tavolino. I Koch hanno speso fino a 200 milioni di dollari (150 milioni di euro) in propaganda elettorale: dovrete faticare in crowdfunding online a 5 dollari a testa per contrastarli. Insomma, senza finanziamento pubblico i ricchi hanno meno ostacoli dei candidati privi di portafogli di coccodrillo.

Ragion per cui forme di rimborso sulle spese elettorali e sostegno alla spesa politica sono diffuse nei Paesi principali. I cittadini, stufi, obietteranno che dal 1978 a oggi hanno, di tasca propria, coperto questo importante principio e sono stati i politici ad averlo tradito. Che solo il No radicale ai finanziamenti possa essere vissuto come ripartenza etica dice molto della triste palude di corruzione, sfiducia, cinismo e amarezza in cui siamo precipitati.

Voglia il cielo che questo taglio e il cambio di generazione al vertice, che oggi coinvolge sinistra e centro ma presto toccherà anche la destra, siano accettati dagli elettori come inizio di una nuova stagione e un nuovo patto tra politica e Paese, senza troppi scontri populisti. Speriamo non sia troppo poco e troppo tardi, e speriamo che nel vuoto scettico e nichilista non avanzino Paperoni furbi e Masanielli spregiudicati. Speriamo sia il primo, di tanti passi umili e sinceri, per un Paese migliore, in Parlamento e tra i cittadini. Perché in una democrazia si torni a essere, davvero, tutti uguali.