Un rapporto dell’Ocse calcola che da qui al 2060 la Cina produrrà il 28% del Prodotto interno lordo del pianeta Terra contro il 17 di oggi, gli Stati Uniti scenderanno dal 23 del 2012 al 16%, l’India dal 7 salirà al 18%. Per avere un’idea del mondo che il presidente Barack Obama incrocerà nel viaggio verso il Sud Est asiatico, India e Cina hanno oggi insieme un’economia che pesa meno della metà degli orgogliosi paesi industriali G7. Nel 2060, l’era dei nostri figli e nipoti, l’economia di Pechino e Nuova Delhi varrà più di una volta e mezzo del G7.
Bastano questi numeri (leggi il rapporto Ocse completo) per comprendere come ad Oriente sorga davvero l’alba del XXI secolo. Del primo mandato di Obama gli storici ricorderanno la «svolta verso il Pacifico» come la scelta strategica centrale. La vocazione di Washington in Asia, antica come la flotta del commodoro Perry che nel 1854 con la Convenzione di Kanagawa aprì il Giappone alla modernità, è destino della prossima generazione.

La forza cinese, con la nuova leadership del partito determinata a pesare anche militarmente come deciso dal presidente uscente Hu Jintao, spaventa i vicini. Il Vietnam guarda agli Usa, già acerrimi nemici, per protezione. I marines sono di stanza in Australia. Il Giappone coordina manovre navali e aeree col Pentagono.

In ogni capitale asiatica si fanno le formazioni, dopo il congresso del Pc cinese: dei candidati al Politburo i riformisti Li Yuanchao e Wang Yang restano in panchina, mentre i conservatori Zhang Dejiang e Liu Yunshan sono convocati. Gli altri cinque, da Xi Jinping, futuro presidente, a Li Keqiang, Zhang Gaoli, Yu Zhengsheng e Wang Qishan hanno poco nel curriculum che li indichi come i «Gorbaciov» della trasparenza cinese.
E’ il tipo di missione che il Presidente appena rieletto predilige, dove rischi e opportunità vengono dal futuro, non dal passato. Il mondo delle sue origini e infanzia, Africa e America, Hawaii e Indonesia, è quello in cui si sente a proprio agio per visione e cultura. Mentre è in imbarazzo, o distratto, davanti alle ancestrali faide del Medio Oriente, Israele, Egitto, Palestina, Siria. Una regione, ai suoi occhi, anchilosata in una perenne vendetta, mentre il futuro avanza dalla Cambogia alla Thailandia.

Anche in Asia, però, il Presidente si imbatterà in insidie e pericoli. Per anni gli studenti americani hanno firmato petizioni a sostegno della premio Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi, costretta agli arresti da una giunta militare sostenuta da Pechino. Quando il paese ha avviato caute riforme, liberando la signora Suu Kyi, sono riemerse però antiche fratture: nello Stato del Rakhine forze di sicurezza ed estremisti buddhisti hanno riacceso un clima di violenza, vittime i musulmani. Un rapporto del Council on Foreign Relations denuncia come alle organizzazioni internazionali, Medici senza Frontiere per esempio, sia stato impedito di soccorrere migliaia di rifugiati. La guerra civile incendia anche lo Stato di Kachin, imbarazzando il presidente Thein Sein. La Nobel per la Pace finora non è intervenuta contro le violenze, ma dovrà presto esporsi per evitare imbarazzanti omertà.

Né Obama troverà pace in Thailandia, dove il re è ammalato e Yngluck Shinawatra e suo fratello Thaksin non riescono a fermare la corruzione, né a isolare le proteste del movimento Pitak Siam. Insomma il maggior alleato di Obama in Asia sembra la paura della Cina e il sogno di sviluppo economico. Perché, se India e Cina vantano tassi formidabili di crescita negli ultimi 20 anni, centinaia di milioni di loro cittadini stentano ancora a trovare uno standard di vita decente. Nel 2060 Pechino e Nuova Delhi saranno officina del mondo, ma il reddito pro capite in Cina resterà appena il 59% di quello americano e in India un assai modesto 27%.
Nella valigetta diplomatica di Obama è ancora l’innovazione il bene più prezioso, quello che fa degli Stati Uniti i leader del presente e del futuro. Un paese irriverente, dove l’anticonformismo è incoraggiato non emarginato come in Asia, dove rompere le regole della produzione e della cultura può ricevere premio, non castigo. Dove ci sono istituzioni come il Media Lab all’Mit dove solo idee «strane» sono accolte e sperimentate, stile che gli ingegneri del Politburo a Pechino non solo non amano, ma temono.

Per questo Obama va in Asia con entusiasmo e un po’ di magone. Felice di una rielezione mai scontata, concentrato sul futuro che gli è caro e in cui crede di poter pesare al contrario che in Europa e Medio Oriente, preoccupato per l’affaire Petraeus. Con la sua sub cultura di pettegolezzi e volgarità, dame scalatrici sociali, vestite alla moda e scolpite dalla chirurgia plastica come cloni della modella Kim Kardashian, e ufficiali di mezza età, depresse Madame Bovary con le stellette e la divisa. Con l’Fbi cui basta nulla per aprire la mail del capo della Cia, e repubblicani e democratici al Congresso pronti a reciproche calunnie sull’esito infelice del raid al consolato Usa a Bengasi. Lo stesso paese che sa di poter essere il più ricco tra mezzo secolo, cui gli ex nemici guardano con speranza, che vanta leadership tecnologica senza rivali, si perde in intrighi non da bassa corte degli Annali di Tacito, ma da serie televisiva americana dei Borgia, sesso, corruzione, potere e banchetti lascivi.
Felice di essere leader del mondo, Barack Obama parte a testa alta, ma passerà ore sui dispacci della pochade Petraeus: perché tanti scandali americani cominciano da sciocchezze e poi bruciano nel loro falò i giganti di Washington.