Ci hanno spiegato tutto, per giorni, quelli che Francesco Guccini irrideva come i «Critici… personaggi austeri… militanti severi…» nella sua ballata «Avvelenata».

Ci hanno illustrato, sussiegosi, che battere la Germania non vuol mica dire eh?, uguagliare l’indice di produttività di quel paese e che prevalere sulla Spagna non cancella 1900 miliardi di debito pubblico. Che scherzare sulle imprese di Super Mario Balotelli in parallelo alla performance su Super Mario Monti con la cancelliera Merkel non è serio, no! Se sui computer gira il montaggio della chioma Mohawk di Balotelli sul profilo bocconiano del premier Monti, non è uno scherzo innocente, è pericoloso sottovalutare l’emergenza economica.

Ci sono poi i faziosi, i soliti «antitaliani» d’accatto, dispeptici guru populisti che hanno proclamato sui loro fogli e i loro siti di tifare con livore contro la Nazionale, «Se no si insabbiano le inchieste sul calcio», corroborati perfino da un magistrato, e il solo commento che ci verrebbe è una faccina di malinconia di quelle usate negli sms dei ragazzi, Vostro Onore. I gufi – «corvacci» li chiamava il Manzoni - hanno avuto di che gioire ieri quando la Spagna ha matato l’Italia con eleganza da toreador. Sappiano però, con i loro giornali e i loro siti: questo spirito negativo non ci paralizzerà, né dentro, né fuori dai campi di gioco.

Non fermerà noi, gli altri, italiani normali, dal presidente Giorgio Napolitano ai ragazzi nelle piazze con gli storici monumenti, occhi ai maxischermi, bandiere in alto anche alla fine. Noi che sappiamo benissimo che la vittoria sonante della Spagna non semplifica la vita né alle Cajas, le banche iberiche in difficoltà, come un nostro successo non avrebbe salvato le Pmi a corto di liquidità. I premier Rajoy e Monti, alleati a Bruxelles giovedì e avversari a Kiev ieri non si scambieranno la camicia né litigheranno per il risultato netto della finale. Scherzare sull’ultimo penalty all’Inghilterra di Alino Diamanti, il più casual, playboy, con un ricciolo dreadlock da rasta, dei campioni, non farà di Piazza Affari a Milano la City di Londra. Gli inglesi ci invidiano la manifattura, elogiata sul Financial Times dal maestro Martin Wolf, noi invidiamo la globalità anglosassone: sfotterci sul calcio rende più amici, non meno. Il New York Times ha fatto di Balotelli l’icona di una nuova Italia, bizzarra e tenace, la stampa tedesca populista ha digrignato i denti, quella autorevole ci ha reso l’onore delle armi. Rimasti in dieci, sotto di due gol contro i campioni d’Europa e del mondo, abbiamo sofferto con dignità, da italiani, da sportivi.

Spiace – davvero! -. per i critici, i personaggi austeri, i militanti severi, Savonarola stentorei col pulpito in Autogrill. Perché i milioni di italiani che hanno acceso i televisori per le telecronache della vecchia, cara, Mamma Rai, dai salotti Vip alle periferie, dalle tendopoli dell’Emilia seguite a viste dal bravo governatore Errani, ai link via satellite e streaming web di emigranti, fuori sede, studenti e lavoratori in ogni paese del mondo, sanno benissimo quel che i critici, i personaggi austeri e i militanti severi pretendono arroganti di insegnarci. Hanno sperato in una vittoria, sanno che un secondo posto all’Europeo è risultato formidabile.

L’Italia riparte se lavora e produce meglio, compatta comenei giorni del pressing di Monti, se le riforme che abbiamo lanciato nel 2012 vanno avanti come un lancio di Pirlo, se i partiti, prima e dopo le elezioni del 2013, mostrano l’unità di tempo luogo e azione della difesa azzurra in semifinale. Il calcio è solo metafora della vita, non è la vita tutta, dice Arrigo Sacchi «la cosa più importante delle cose non importanti». Abbiamo sognato, oggi torniamo a lavorare: noi.

Nell’estate 2012, in tutta Italia, la Nazionale è diventata una parabola, una favola e poco importa il lieto fine mancato. In un anno difficile, tanti di noi hanno cercato nei guizzi di Cassano, negli occhi sgranati di Buffon, nella barba fulva di De Rossi, nel naso gibboso di Chiellini un presagio allegro. Se ce la fa la banda di matti di Cesare Prandelli, perché non io, la mia famiglia, il mio paese? Oggetto dello scherno insolente degli stessi critici, personaggi austeri e militanti severi, il presidente Napolitano ha compiuto 87 anni proprio nei giorni caldi dell’Europeo. Era andato a vedere l’esordio degli azzurri, dopo la débâcle in amichevole per 3 a 0 contro la Russia. Aveva abbracciato Buffon, e ha scritto prima della finale una bella lettera a Prandelli, invitando lui e la squadra per oggi al Quirinale, come fece Sandro Pertini con i campioni mondiali 1982: «Caro Prandelli… quello che ho trovato molto bello in tutte le vostre prestazioni agli Europei è stato l’affiatamento tra “vecchi e nuovi”, lo spirito di squadra, la comune determinazione e generosità. Impossibile fare graduatorie: non c’è stato nessuno che non abbia condiviso l’impegno e lo sforzo, che non abbia dato il meglio di sé. E aver creato quel clima, aver saldato quella compagine è stato atto meritorio. Ho… molto apprezzato la sobrietà e serietà dei suoi commenti: consapevolezza dell’importanza dei risultati, senza retorica, senza trionfalismi, sapendo quanta strada resti da percorrere. Ma non è forse questo il discorso da fare per l’Italia e per la sua Nazionale di calcio?».

Così il presidente Napolitano ha dato l’imprimatur alla favola, si può tifare Italia, si può lavorare con rigore a uscire dalla crisi, e si può - ebbene sì! - sorridere traendo auspici favorevoli dal football all’economia, quando si vince e quando si perde come ieri notte. Né il Nobel Krugman né il guru Roubini lo riconoscono nei loro algoritmi, ma noi possiamo lo stesso. Per questo oggi tutti ad applaudire al Quirinale Cesare Prandelli e i suoi (ok, al bar potete dire che ha sbagliato a insistere su Abate e Montolivo, ma fino al caffè). E ricordate: siamo la solo squadra Nazionale ad avere vinto Mondiali prima e dopo la guerra. Appuntamento al 2014 in Brasile: c’è da diventare la prima nazionale europea a vincere un Mondiale di là dall’Oceano. Forza Italia.