«Io tengo n’appartamento a New York, ’a parte e Mulberry Street, scrivo ’e canzone e faccio ’e dollari. Io tengo pure ’a guagliona a New York ma c’aggia fa? Sissignori l’America è bella ma ’a radice che tengo int’ ’o core non mi da pace non son felice Napoli senza di te…» povero Renato Carosone, che penserebbe oggi passeggiando per Mulberry Street, la strada dei gelsi, nella vecchia Little Italy?  

A Nord il quartiere caro al tenore Caruso, a Frank Sinatra e alla mafia del boss John Gotti, è stretto dalle eleganti boutiques di NoHo e Nolita, che – scrive con rammarico il quotidiano popolare New York Post – impongono all’antica festa di San Gennaro di non mettere chioschi fuori dalle loro vetrine, «o la gente con le mani sporche di grasso ci rovina i generi di lusso».  

 A Sud la Cina ha vinto. Pizzerie, fiaschi di vino con la paglia, forme di pane che in Italia non trovate dal dopoguerra, tovaglie a scacchi bianchi e rossi, «spaghetti meatballs», pasta con le polpette che Disney fa servire da un oste italiano ai cani innamorati Lilly e il Vagabondo, lasciano il posto a anatre alla pechinese, spaghetti cantonesi, sughi di testa di pesce così bizzarri che – giura un cameriere cinese – «Li serviamo solo a chi ce li ordina in mandarino». 

 Secondo il Post «Little Italy sta per estinguersi e dice arrivederci», ma il giornale è ottimista, Little Italy si è già estinta ed ha esalato il suo Goodbye da anni. Nel 1980 l’italiano era la terza lingua più parlata negli Stati Uniti, dopo inglese e spagnolo, da oltre un milione e mezzo di italoamericani. Nell’ultimo censimento gli «Italian speaker» si riducono a 798.801, al nono posto, dietro portoghesi, russi, vietnamiti e filippini «tagalog». Lo spagnolo insidia l’inglese per il primo posto, il cinese è terzo. 

 Little Italy muore perché gli italiani si integrano, dimenticano – al contrario di Carosone – le radici, o le trasformano in culturali, non etniche. Essere «italiani» vuol dire ormai tante cose diverse. Il nuovo sindaco di New York Bill De Blasio, che sposa una nera con un passato gay, farebbe inorridire gli ultimi vecchini che bevono espresso al Sambuca Cafe, angolo Canal Street, con la buccia di limone sul piattino (memoria, si dice, del primo sbarco da emigranti a New York, con le Società di mutuo soccorso a servire sul molo brodo e caffè agli esausti connazionali, pulendo poi le tazze con mezzo limone).  

Quando l’Italia gioca al Giants Stadium (New Jersey, al confine di New York) contro l’Irlanda, all’esordio Mondiale 1994, il Ct Arrigo Sacchi mi disse: «Spero nel tifo italoamericano». Obiettai: «Mister, i nostri connazionali guardano il baseball dai tempi di Di Maggio». Il giorno dopo lo stadio era un tripudio di bandiere irlandesi. Quando invece l’Italia vince il Mondiale, 1982 e 2006, le città canadesi sono invase dal tricolore, «la più grande manifestazione popolare del Canada», scrive un giornale. A New York la festa è ristretta a Little Italy, con le due tribù italiane superstiti che si insultano a vicenda da «Eurotrash» e «Guidos».  

 Gli «Eurotrash», spazzatura europea, studiano alla Columbia, lavorano nelle banche, vestono blazer blu attillati, mangiano sushi e seguono le partite online. I «Guidos», popolarizzati dallo show tv Jersey Shore, hanno catene d’oro al collo, il giubbotto di pelle aperto su T-shirt bianche, non finiscono il college e la partita la guardano al bar d’angolo. Ma nessuno di loro vive a Little Italy. I nuovi italiani li trovate a Manhattan, o nei rioni trendy, Brooklyn Heights, Williamsburg, i Guidos (ma non chiamateli così) a Bensonhurst, Brooklyn, tanto ostile alle minoranze da attrarre nel 1990 i cortei di protesta del reverendo afroamericano Al Sharpton, irriso dagli italiani in canottiera con fette di anguria, palloni da basket e grida «Negri a casa», o nel «Jersey», dove sono cresciuti Sinatra e Bruce Springsteen. 

 Il mese scorso, il regista nero Spike Lee ha aggredito la nuova New York, a suon di parolacce, in una conferenza registrata dal settimanale «New York». Lee lamenta che «la sua» Brooklyn sia invasa da russi, ricchi, borghesi, finti ribelli, che sfrattano «noi abitanti originali». È la stessa solfa che da sempre, da Little Italy al Bronx, la città registra quando la storia pressa, inarrestabile. Sul web gira invece la fola snob È-in-corso-una-fuga-da-New-York, e viene da sorridere ricordando l’allenatore italoamericano del baseball Yogi Berra, «Nessuno va più là ormai, troppo affollato». L’ultimo dato del Census Bureau, 27 marzo 2014, registra il record storico assoluto di abitanti: 8.405.837 newyorkesi Doc.  

 Fate dunque una passeggiata a Mulberry Street, seguendo il sito http://goo.gl/R0OdPP casa per casa. La Chiesa di San Gennaro e i sospetti legami con il clan Genovese; il ristorante Il Cortile caro a Danny De Vito e Billy Joel; il Casa Bella del boss Sabella; il numero 129 dove, nel 1972, alla vecchia Clam House, Joe Gallo viene abbattuto da tre pallottole mentre festeggia il compleanno; il civico 163 da cui il gangster Lucky Luciano sfugge all’arresto nel 1923; la Cattedrale vecchia di San Patrizio dove i nostri connazionali si battezzavano, sposavano e celebravano funerali; l’incrocio con Houston Street che brucia nella rivolta contro la leva ai tempi della Guerra Civile, gli isolati accanto dove si nascondono i renitenti al Vietnam.  

 Non piangete dunque Little Italy come Spike Lee piange Brooklyn e gli ingenui piangono «New York che si spopola». La città vive di domani, non di ieri, e nel domani ci sarà una nuova dimensione per gli italiani, magica e tutta da inventare.