“Globalizzazione” è stata una parola magica, considerata capace di cambiare il mondo una volta per tutte, più di un Expecto Patronum, il più potente incantesimo di Harry Potter. Nel suo discorso di addio del 2001, il Presidente Bill Clinton rassicurò il mondo dicendo: “L’economia globale sta dando ai nostri cittadini, e a miliardi di esseri umani nel mondo, l’opportunità di lavorare, vivere e accudire le famiglie con dignità”. Un anno dopo il primo ministro britannico Tony Blair fu anche più risoluto: “Il mondo povero necessita non di meno globalizzazione, ma di più globalizzazione. L’ingiustizia non è la globalizzazione ma esserne esclusi”.

La magia si è attenuata in fretta dopo la crisi finanziaria 2008. Ora Donald Trump, capofila repubblicano nella Casa Bianca, mescola una pozione neo-protezionista, la tassazione del quindici per cento sull’outsourcing, del venti per cento sulle importazioni e la fine degli accordi sui commerci internazionali, persuaso che “Stanno sopprimendo i posti di lavoro degli americani!”. Il senatore socialista Bernie Sanders, rivale di Hillary Clinton tra i democratici, si vanta: “Ho votato contro il NAFTA, il CAFTA e il PNTR con la Cina… un disastro per i lavoratori americani… abbiamo perso milioni di lavori e salari dignitosi”.

Lo spettro dell’anti-globalizzazione si aggira per il mondo, serpeggiando da destra a sinistra. La nazionalista francese Marine Le Pen odia “Il fondamentalismo islamico e la globalizzazione che è un altro tipo di totalitarismo”, mentre il leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn critica “I banchieri avidi e le multinazionali”.

Il libro di Jeffrey E. Garten “From Silk to Silicon” (Dalla seta al Silicio) va in stampa, mentre i venti populisti sembrano inarrestabili, promossi da economisti come il premio Nobel Joseph Stiglitz, l’autore di best seller francese Thomas Piketty e dal regista vincitore dell’Academy Award Michael Moore. Garten è consapevole che “espandere i commerci può condurre ad una crescita economica… ma anche indebolire i lavori già esistenti”, eppure il suo entusiasmo non si abbatte, perché “la storia della globalizzazione è nient’altro che la storia dell’umanità”. Per provare la sua idea, Garten, ex preside della Yale School, schizza la vita di dieci paladini della globalizzazione, dal leader mongolo Gengis Khan, nel XII secolo, all’amministratore delegato di Intel Andrew Grove, da poco scomparso, dall’esploratore portoghese Enrico il Navigatore (nato nel 1394) a Cyrus Field, eroico finanziere ossessionato dal collegare l’Europa con l’America via cavi telegrafici sottomarini nel XIX secolo. Cosa collega un feroce cavaliere mongolo, un imprenditore sopravvissuto all’Olocausto, un principe commerciante di schiavi ed un pioniere della comunicazione digitale? Secondo Garten, i suoi personaggi son tutti eroi nella “storia della globalizzazione”, un processo unico “portato avanti a piedi, cavallo (Gengis Khan), nave (Enrico il Navigatore), telegrafo (Cyrus Field)” e, nella moderna globalizzazione dalla “tecnologia dell’informazione” di Grove.

 Il libro è punteggiato di aneddoti che descrivono come il commercio abbia cambiato il mondo medioevale, quando “Le città commerciali di Genova, Baghdad, e Samarcanda generavano un’avventurosa classe di mercanti… ottenendo nuovi obiettivi nella tecnologia e nelle arti, dalla ceramica della Cina dei Song al mobilio intarsiato d’oro e d’argento della Persia”.  Gli interessanti aneddoti sono spesso mescolati a banalità, Jean Monnet, padre dell’Unione Europea, inizia la sua carriera nell’impresa di famiglia, produttrice di cognac, e sosterrà sempre che la “pazienza” è virtù cardinale per la diplomazia “per la quale il cognac, frutto del tempo, è buona preparazione”. Grove rimprovera un collega, sopraffatto dalle scadenze, ringhiando “Non ci sono problemi più grandi! Ci sono solo problemi!”.

Il problema in “From Silk to Silicon” è l’assunto di Garten che “globalizzazione” sia sinonimo di “storia”, non solo il processo tumultuoso che precede la fine della Guerra Fredda. Gli uomini di Enrico il Navigatore, scrive Garten, “Non hanno soltanto barattato tessuti… hanno anche perseguitato uomini, donne, e bambini…  costringendoli in condizioni inumane”. Gengis Khan ha “bollito vivi i nemici e trasformato i loro crani in coppe placcate d’argento”, mentre il generale Robert Clive, militare britannico che fece fortuna con la Compagnia delle Indie Orientali, è accusato di aver “bombardato un accampamento civile francese… e di aver sparato su truppe francesi che avevano alzato la bandiera bianca”. Erano personaggi ambiziosi e senza scrupoli, avidi di potere, del tutto lontani dagli ideali e dagli interessi dei movimenti internazionali che chiamiamo “globalizzazione”, con il sogno di consenso politico, gli infiniti negoziati commerciali in stile Doha, le multinazionali che tramano per dubbi profitti, le organizzazioni non governative che condannano ineguaglianze sfrenate. Secondo l’economista della Columbia University Xavier Sala-i-Martin i tassi di povertà sono scesi dell’80% e il benessere globale è aumentato tra il 128 e il 145% in meno di mezzo secolo di globalizzazione, nonostante gli urli dei protezionisti che rimbalzano nella campagna presidenziale Usa.

Nel suo entusiasmo, Garten sembra eguagliare “imperialismo” e “globalizzazione”, benché il secondo non abbia mai pianificato di provocare una crescita tanto imponente, limitandosi allo sfruttamento brutale tramite un duro potere politico. La lista di Garten è interessante ma casuale, Alessandro Magno e Napoleone, due veri esportatori di cultura, leggi e tradizioni, non solo di truppe e merci, avrebbero ben meritato di essere presenti in queste pagine. Garten ha ragione ad includere Margaret Thatcher ma esclude Henry Kissinger e Richard Nixon, fedeli campioni della globalizzazione con le loro storiche missioni in Cina.

La tesi centrale è stiracchiata alla fine di ogni capitolo, quando Garten prova a tracciare un albero di famiglia da Gengis Khan ad iPhone, sushi, trattato Trans-Pacific Partnership. La visione di Monnet per un pacifico mercato comune europeo, finita la seconda guerra mondiale, è confrontata con i raid di guerrieri assetati di sangue perché, secondo Garten, “L’essenza della globalizzazione è la riduzione dei confini, precisamente ciò che Monnet ha fatto… ciò che hanno fatto anche Genghis Khan e Robert Clive, tramite la creazione di imperi”. La globalizzazione è “riduzione dei confini”, ma il suo principio baseè stato, almeno fino alla Crimea, alla Siria e all’Ucraina, l’assenza di una guerra globale. Equiparare il buon Monnet a Gengis Khan fa un po’ sorridere.

I liberi commerci sono aumentati sì, ma senza cannoniere e questo nuovo scenario è stato reso possibile dall’assenza di una superpotenza dominante, quando la crescita ha spronato Cina, India e America Latina fuori da secoli di dominazione straniera, inaugurando il presente, periodo inquieto che l’economista Moises Naim ha definito “La fine del potere” e il geopolitico Ian Bremmer “era senza leader”, G-0, orfana di ogni G-7, G-8 o G-20.

L’autore coglie la propria contraddizione alla fine del saggio, e sarcasticamente deve ammettere “Quando ho iniziato a scrivere questo libro, supponevo che i dieci personaggi che avevo selezionato fossero dei visionari… ma immerso a fondo nelle loro vite… sono giunto ad una differente conclusione: non avevano affatto grandi strategie in mente… accelerare la comunicazione fra le nazioni non fu mai una loro motivazione, erano solo spinti dalla smania di acquisire potere, ricchezza, fama”. Riconoscere l’errore elimina ogni collegamento diretto tra Gengis Khan e Deng Xiaoping, ultimo ritratto nella galleria di Garten.

Le avventure transnazionali sono antiche come la storia; Alessandro va in India, Cesare in Egitto, Marco Polo in Cina, ma signori della guerra ed esploratori non vollero mai migliorare il benessere o l’export internazionale.

 Globalizzazione ed economia post industriale hanno distrutto milioni di posti di lavoro nel mondo sviluppato, mentre hanno portato centinaia di milioni di poveri dalla fame ad una vita dignitosa nei paesi in via di sviluppo. Questo fenomeno unico, allo stesso tempo magnifico e terribile, pieno di contraddizioni, ha conseguenze che stanno ancora modellando il nostro mondo, dai capricci televisivi di Trump ai falò degli anarchici ad Atene. A Garten sfugge quanto radicale sia stata la rivoluzione, e come furiosamente stia ancora influenzando ciò che Raghuram Rajan, governatore della Reserve Bank dell’India, chiama “il nuovo normale”.

  “From Silk to Silicon” è libro ben scritto e dal ritmo frizzante, sebbene qui e lì sia danneggiato da luoghi comuni e da qualche refuso nelle mappe. Solo Field, il finanziere americano, che nonostante le difficoltà, posò il primo cavo telegrafico attraverso l’Atlantico nel 1858, è un vero eroe della contemporanea globalizzazione. Senza i suoi cavi subacquei, “nel 1830 un messaggio, per andare da Londra a New York o a Bombay impiegava lo stesso tempo che avrebbe impiegato ai tempi di Vasco da Gama”, mentre “grazie al cavo oceanico, al momento della morte di Field, nel 1892, la comunicazione tra gli Stati Uniti e l’Europa divenne quasi istantanea”. Garten esalta, scherzosamente, il prodigio della Regina Vittoria, che celebra la posa del nuovo cavo con un telegramma diretto al Presidente James Buchanan, un testo di novantanove parole che passa per ben sedici ore e mezzo sotto l’oceano. Pensateci quando vorreste lamentarti delle email lente in ufficio...