Se chiedete nella redazione di un giornale, o al bar della piazza di paese, «Da dove vengono i guai della stampa?» la risposta tuonerà «da internet». Come tanti luoghi comuni, però, anche questo va in pezzi confrontato con la Maestra Realtà. Sapete infatti qual è l’anno record delle tirature dei giornali negli Stati Uniti? Il 1974, ben venti anni prima del web.  
In Italia, ancora a metà degli anni ’80, cioè venti anni prima del boom web di casa nostra, i giornali aumentavano di pagine e influenza. 

Non dal web nasce la rivoluzione nell’informazione. Il mutamento è la fine della società di massa del XX secolo, impiegati, imprenditori, studenti, casalinghe, operai, contadini, soldati, destra, sinistra, cattolici, ceti o gruppi di opinione omogenei tra loro, che potevano leggere lo stesso editoriale, la stessa inchiesta, con soddisfazione condivisa.
Quando, dopo 1968, Concilio Vaticano II, declino della catena di montaggio, femminismo, scuola dell’obbligo, va in pensione «l’uomo a una dimensione» deprecato dal filosofo Marcuse, ogni cittadino si scopre con gusti, idee, curiosità, bisogni, interessi variegati, diversi. Per quasi vent’anni non c’è ancora un mezzo che soddisfi questo caleidoscopio di opinioni poi arriva il web.
La stessa analisi fotografa il ruolo dei giornali durante le elezioni italiane 2013. Molti osservatori, in buona fede o con malizia, assimilano l’informazione alla decadente Casta, incapace di anticipare l’umore dispeptico del paese. Se dai siti dei giornali populisti, o dal popolare blog di Beppe Grillo, si denunciano i giornalisti come «venduti», «maiali», più raffinati suggeritori insinuano che non ci sia più bisogno di un professionismo dell’informazione, basterà accedere al grande e fantastico del web per redigere, in proprio, la prima pagina del MarioRossiTimes o della GazzettaCarlottaBianchi. 

È davvero cosí? Fino a un certo punto. La stampa italiana ha coperto il voto 2013 secondo antiche tradizioni e filosofie, molto schierata in alcuni settori, obiettiva in altri, con la novità dei siti online. È vero che i sondaggi hanno dato una dimensione minore al boom di Grillo, ma è sempre difficile calcolare il voto di una formazione debuttante e fuori dal campione. Sugli altri partiti son stati precisi. 

Chi si ostina a vedere una trincea irta di filo spinato tra old media e new media, giornali, tv e web non coglie la realtà integrata del nostro mondo. Grillo ha reinvestito online la vecchia popolarità degli show tv. Twitter rende Agora, Porta a Porta, Ballarò, Sky, interattive come un sito, si guarda e commenta. Un metodo di lavoro che La Stampa ha impiegato sui Big Data con il progetto Tycho-Imt. È la riedizione del classico lavoro del cronista, suola di scarpe e parlare casa per casa con la gente, moltiplicato dalla potenza dei dati che si possono raccogliere in massa sul web con algoritmi, reti da pesca di opinioni e idee. Il silenzio sui candidati minori, la mancanza di scintilla nel centro di Monti, il veleggiare senza impeto di Bersani, la spallata di Berlusconi dopo il no all’Imu, sono stati tutti colti con precisione. 

I dati Tycho-La Stampa hanno colto lo tsunami di Grillo, ma al tempo stesso anticipato il suo dilemma strategico futuro: il 25% è consenso con la piattaforma online del 5 Stelle o invece sprezzante no agli altri partiti? La seconda risposta sembra corroborata dall’alta frequenza con cui Grillo è citato dalla sua, appassionata, base militante ma dagli scarsi rilievi con cui interagisce invece nella discussione con gli altri partiti. Un voto Findus, compatto ma congelato in se stesso se Grillo e il suo braccio destro Casaleggio non decideranno infine di «far politica». 

 Ancor meglio i dati parlano se confrontati con il territorio. Come dimostrano i calcoli dei flussi del professor Roberto D’Alimonte per il Cise, è stato il Sud, in particolare Campania e Puglia, a toglier fiato al Pd, negandogli la vittoria. E sulle mappe regionali Tycho-Imt (www.lastampa.it) il Pd al Sud stentava molto, in Puglia non riuscendo neppure a passare la soglia minima delle citazioni. Visualizzazione dati di una sconfitta annunciata. 

I dati cantano dunque, ma i dati vanno analizzati, ponderati. Uno studio del Journal of Computer-Mediated Communication dimostra come i «troll», i calunniatori online, i sarcasmi di chi commenta nichilista in fondo agli articoli, danneggino la credibilità dei loro obiettivi in modo grave e imprevisto. Napolitano, Benedetto XVI, il Papa, Rita Levi Montalcini, nessuno è immune all’acido della perfidia online. Un pericolo che induce il pioniere del web Jaron Lanier, nel suo nuovo libro «Who owns the future» (chi possiede il futuro?) a temere che l’informazione libera finisca in mano a pochi grandi monopoli punzecchiati dai troll che alla lunga elimineranno, come pulci su un elefante. 

Un destino malinconico ma non obbligato. Se, come ha già cominciato a fare sperimentalmente nel 2013, la stampa impugnerà rete e dati per informare, i risultati saranno sorprendenti. A un seminario della Scuola di Giornalismo alla Columbia University, durante la recente Social Media Week, Amanda Zamora e Blair Hickman hanno parlato di callout, inviti diretti alla rete a dire la propria nel corso di un’inchiesta, sulle case fatiscenti, la scuola che non funziona, la crisi finanziaria. Anziché intervistare le solite, poche, fonti, attingere a una massa larga di esperienze, storie, aneddoti, emozioni. Insomma, se guardate senza astio al voto 2013 possiamo dire che l’informazione ha davanti a sé un grande futuro: a patto, beninteso, di non avere paura del futuro, di amarlo, studiarlo, sperimentarlo.