La giornata di guerriglia di ieri, in Egitto, ha toccato oltre al Cairo Alessandria, Ismailia, Damietta e le proteste hanno lambito i centri turistici internazionali, dando alla grande crisi del Paese arabo risonanza nelle distratte cronache del mese di vacanze in agosto.

La strage di centinaia di morti, il calcolo delle vittime resterà per sempre incerto, conferma che il regime militare del generale Abdel Fattah al-Sisi ha deciso di portare l’orologio politico egiziano ancora più indietro rispetto ai tempi del presidente Mubarak. Allora i Fratelli Musulmani, per quanto perseguitati e incarcerati, avevano però un margine di manovra sociale, lavorando nei quartieri con la loro vasta rete di solidarietà religiosa. Tollerati, purché non alzassero troppo la testa.

Ora, dopo il golpe che ha abbattuto il presidente islamista Morsi e la feroce repressione, la giunta militare manda un messaggio chiaro: l’ordine deve regnare al Cairo e in tutte le altre città d’Egitto e lo stato di perenne anarchia seguito alla caduta di Mubarak deve cessare, subito. La protesta del presidente Obama, per quanto flebile e limitata, in concreto, a un semplice stop a manovre militari congiunte che avrebbero visto gli americani fianco a fianco ai responsabili delle stragi, è stata irrisa dai generali.

Che hanno spiegato, con sussiego, di dare la caccia agli stessi islamisti che Obama colpisce con i droni in Yemen e Afghanistan. Un’accusa chiara di ipocrisia, tanto più che Washington staccherà puntuale l’assegno annuo di un miliardo di euro, mancia pingue su cui l’esercito basa da decenni il potere.

La denuncia europea della repressione, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel, dal presidente francese Hollande e dal premier italiano Letta, benvenuta sul piano diplomatico, non avrà però nessun effetto concreto sulla crisi. Da troppi anni l’Europa agisce in Medio Oriente divisa, ciascuna potenza a rimorchio dei propri interessi locali, e l’assenza di una forza militare accanto alle belle parole sui diritti, farà sì che l’UE, per dirla all’italiana, godrà di «una bella figura» all’Onu, che pure sta muovendo, tardi e male, il Consiglio di Sicurezza, ma senza aiutare l’Egitto a ritrovare pace. Israele, che collabora nel Sinai con l’esercito egiziano contro terroristi infiltrati, sta a guardare, ma il bagno di sangue al Cairo rende i «negoziati di pace» israelo-palestinesi, voluti a tutti i costi dal segretario di Stato Usa Kerry, ancor più vacui e velleitari.

In Egitto la parola è alle armi, in uno scontro di potere dove la forza schiaccia la debolezza, nel senso più crudele dei filosofi Hobbes e Machiavelli, niente diritti, niente dialogo, nessuna carta civile. Il generale al-Sisi legge il governo di Morsi come prova che i Fratelli Musulmani non accetteranno mai non solo la democrazia, ma neppure un equilibrio di stabilità, il vecchio Egitto, più grande Paese arabo, come boa tra le tensioni in Medio Oriente. La giunta accusa Morsi di non avere mediato con i militari, di avere lasciato che la piazza islamista spaventasse e minacciasse i cristiani copti, i liberali, il ceto dei mercanti e degli industriali. Ha deciso che, fino a quando i Fratelli non saranno annichiliti, ridotti alle corde, terrorizzati, l’Egitto non avrà pace e si comporta di conseguenza, certo che alla fine Usa e Europa abbozzeranno, come in Siria davanti alla piramide macabra di 100.000 morti che Assad ha eretto pur di restare al potere.

La noncuranza con cui i militari massacrano i Fratelli Musulmani e fanno spallucce davanti alle proteste occidentali si radica nell’appoggio, sfrontato, immediato e munifico che viene loro dai Sauditi. Terrorizzata dalla cosiddette «Primavere arabe» e dall’insorgenza islamica in Egitto, la Casa Reale saudita è opulento sponsor di al-Sisi. Re Abdullah mobilita con l’Arabia Saudita, il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti per versare 10 miliardi di euro nelle esauste casse del Tesoro egiziano, 10 volte, calcola il quotidiano Financial Times, più dell’obolo americano e del sostegno venuto al presidente Morsi da Qatar e Turchia.

L’azzardo di al-Sisi punta su un’opinione pubblica egiziana stanca di disoccupazione e violenza, poco interessata alla democrazia, determinata a riprendere il lavoro e una qualche forma di convivenza pacifica. A questa stabilità i militari vogliono portare i contadini, i poveri delle città, il ceto medio produttivo e urbano, i cristiani, contando che intellettuali e progressisti accetteranno la mano forte, in cambio di un Egitto laico, odiato da Morsi. Un sondaggio Zogby sembra dare loro ragione, tra la gente comune poca attenzione per i diritti, molto desiderio che il caos finisca presto.

L’incognita della sanguinaria equazione è lo spirito di sacrificio e la forza del fanatismo islamista. Che potrebbe non accettare di tornare nei quartieri come ai tempi di Mubarak, occupare tragicamente le piazze, mentre il terrore filo al Qaeda colpisce le spiagge sul Mar Rosso, distruggendo l’industria del turismo. I libri di storia registreranno come insieme liberali, militari e Fratelli Musulmani abbiano sprecato un’opportunità unica per avviare il loro antico Paese verso il XXI secolo.

Oggi, mentre in Egitto si muore e nel mondo si parla compunti e presto si penserà ad altro, la sola alternativa sembra una vittoria della repressione di al-Sisi o la guerra civile strisciante. Lo «scontro di civiltà», che nella fallace previsione del professor Huntington avrebbe dovuto opporre occidentali a musulmani, continua invece, dal Nord Africa alla Turchia all’Afghanistan, a dilaniare la umma, la gigantesca comunità islamica.