È assai probabile che - a meno di catastrofi - la corsa alla Casa Bianca 2012 tra i democratici guidati da un ridimensionato presidente Barack Obama e i repubblicani del redivivo Mitt Romney sia ormai decisa. Dopo mesi di spot tv, polemiche sui blog e twitter, mega dibattiti tv, gli elettori sanno in cuor loro chi votare il primo martedì di novembre. Gli indecisi, non più legione, difficilmente seguiranno un solo candidato. Il risultato potrebbe essere uno storico fotofinish. I sondaggi raccolti ieri, confermano il pareggio, 47 a 47%, con l’eccezione di Gallup che dà a Romney un vantaggio congruo, 6%. Obama sembra tenere l’esile +4% in Ohio che potrebbe ridargli la vittoria. 

Il faccia a faccia tv di lunedì notte ha solo confermato impressioni e previsioni sulle amministrazioni Obama II o Romney I. L’errore del Presidente, forse mal consigliato da uno staff troppo militante, è stato caricaturare, a suon di spot che alla fine costeranno un miliardo di dollari (780 milioni di euro), Romney come un miliardario che licenzia e esporta capitali.  

Nei dibattiti Romney è apparso invece quel che è, l’ex governatore repubblicano del progressista Stato del Massachusetts, centrista riluttante in un Grand Old Party, repubblicano ostaggio della destra Tea Party, e il pubblico ha reagito con simpatia, anche chi non lo voterà. I democratici, bruciata parte del tesoro elettorale, hanno dovuto ricominciare da zero puntando infine su tasse e lavoro.  

Non è stata la performance di Romney a capovolgere l’ottimismo eccessivo dei media liberal: è stata la realtà, dura maestra in America. Se Romney non è in testa in modo netto, malgrado la disoccupazione ancora troppo alta, ceto medio e piccole imprese in sofferenza, ripresa anemica e impopolare riforma sanitaria Obamacare, è perché non ha saputo fugare la paura sociale contro gli interessi economici vicini ai repubblicani. Tanti elettori si chiedono: se mi trovassi nelle condizioni degli operai dell’auto a Detroit, sull’orlo del fallimento, chi mi darà una mano, Obama o Romney? Tante donne si interrogano sui sussidi alla scuola, l’aborto, perfino la piccola tv pubblica Pbs a rischio chiusura. I veterani di guerra pensano a sanità e pensioni. Gli studenti ai Community College locali, i soli in cui possano laurearsi con pochi soldi. Simpatizzano magari con il «meno tasse, meno spesa, bilanci in ordine» del sanguigno candidato vicepresidente Paul Ryan, ma temono che quella filosofia li danneggi. Infatti, scelto come uomo del futuro, Ryan è rimasto in naftalina per l’intera campagna: farà guadagnare voti nel futuro, rischiava di farli perdere nell’amletico 2012. 

Così il dibattito che il New York Times ha definito di «politica globale», lunedì, non ha neppure nominato l’India, discusso della crisi dell’euro o evocato l’Europa, ragionato sulla frizione Giappone-Cina, analizzato la nuova Africa, citato lo storico congresso del Partito comunista cinese. I temi del futuro, clima, ambiente, demografie, migrazioni, acqua, cibo, epidemie, metropoli e campagne tutti ignorati. Conta l’economia e l’America, paese globale, sa che la «sua» economia interna dipende dal mondo, commerci e guerra valutaria con la Cina, rischi sul prezzo del greggio in caso di raid contro l’Iran atomico, l’antico «cortile di casa» in America Latina ora diventato partner in affari. Obama e Romney hanno due programmi di politica estera identici perché sono pragmatici, non ideologici, e riflettono nelle proposte gli interessi nazionali Usa nel Pacifico, Medio Oriente, su tariffe ed energia. Poi Obama mette un pizzico di diritti umani, Romney una spruzzata di «America First!» e tutti d’accordo. Se la Casa Bianca andasse all’opposizione niente novità al Dipartimento di Stato. 

Ieri l’agenzia Nuova Cina ha finto di protestare per i toni anti Pechino del dibattito, ma con diplomazia astuta ha riconosciuto l’ampia retromarcia di Romney che - dopo troppi attacchi alla valutazione della moneta cinese - ha incensato il contributo cinese a stabilità, pace e sviluppo, con un’enfasi che avrà irritato i Tea Party. 

Hollande, Merkel, Cameron, il premier Monti rifletteranno sul silenzio completo a proposito di Unione Europea, non un richiamo agli alleati, non un cenno alla nostra crisi o a soluzioni unitarie per Iran, Medio Oriente, gap finanziario. Certo, meglio delle primarie, quando «europeo» era un insulto, ma c’è a Washington un’aria di scarsa rilevanza dell’Ue, vuoi per interlocutori di limitato carisma internazionale da van Rompuy a Lady Ashton, vuoi perché i guai di Grecia e Spagna ci stanno troppo alienando dal mondo. Chiunque giuri in Campidoglio a Washington, nel gennaio 2013, Bruxelles dovrà recuperare in fretta prestigio e peso. 

Il resto sono aneddoti minori, la felice battuta di Obama sulla difesa che ha meno navi che nel 1917, ma anche meno cavalli e baionette, l’intelligente finta «a sinistra» di Romney, minimizzando la morte di Osama bin Laden, «non possiamo mica ucciderli tutti». Contano molto in tv e sui giornali, moltissimo nell’officina di idee del web, nulla sul voto. L’America sembra fortunata in questo 2012, con due candidati seri, perbene, di carattere, ottimisti. Rappresentano entrambi, da moderati, le filosofie politiche centrali degli Usa oggi: un cauto riformismo economico, con il sostegno dello Stato ai poveri ed enfasi sui diritti sociali in Obama; un cauto liberismo antitasse ed enfasi su diritti individuali ed aziende in Romney. Entrambi però sono circondati da zelanti ideologi, ultraprogressisti o veteroconservatori, che rendono ostici al Congresso i compromessi legislativi, isolando impotente la Casa Bianca. 

Barack Obama e Mitt Romney, con il tono civile della campagna, hanno se non sradicato almeno scoraggiato la rancorosa «guerra culturale» che squassa da 20 anni il paese. E’ un bene, e sarebbe un gran bene, se dopo il 6 novembre i loro partiti ne seguissero l’esempio, firmando un compromesso fiscale, un piano di rientro dal debito, ormai urgentissimo per l’ultima superpotenza e non bloccando alla Corte Suprema i candidati indipendenti. Bene altrettanto grande sarebbe se, dopo aver seguito la prova della democrazia americana i leader, vecchi e nuovi, d’Italia condividessero l’urgenza di toni sobri, faccia a faccia razionali in tv, interessi nazionali condivisi senza imbarazzi. E’ il solo vaccino contro i bacilli populisti e la grande maggioranza dei cittadini, al netto degli inguaribili facinorosi, in America e da noi, lo sa.