Siamo tutti molto critici sui leader del nostro tempo. Obama ha deluso, la Merkel non è Adenauer, Hollande e Cameron la pallida copia di Mitterrand e Lady Thatcher. Quando poi guardiamo in casa, che nostalgia di De Gasperi, Moro, La Malfa, Berlinguer, Malagodi davanti alle delusioni presenti.

L’incapacità della scorsa legislatura di riformare la legge elettorale e contrastare la corruzione ha invigorito il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo sarà forte nel prossimo Parlamento e, passato l’entusiasmo del «tutti a casa!», proverà a stoppare ogni provvedimento come va già facendo in Sicilia.
Di questo doloroso stato di cose possiamo, volendo, accusare «la classe politica», dimenticando però che in democrazia siamo noi ad eleggerla. E fingendo di dimenticare che, a non dimostrarsi all’altezza, è l’intera classe dirigente, imprenditori, sindacati, uomini di cultura, media, accademia, manager, finanza. Non c’è categoria che non annaspi davanti al futuro, tra scandali, clientele, omissioni, difesa di privilegi e status quo.

Può sorgere allora il dubbio che i leader «deboli» della nostra generazione siano invece frutto di un Paese che ha perduto valore condiviso di comunità. Nel cuore della Guerra Fredda, lo scrittore Guareschi riusciva con facilità a far intendere il prete Dc Don Camillo e il sindaco comunista Peppone, sulla Patria, la Prima Guerra mondiale, il Presepe, il Calcio, i valori rurali della Bassa contro «i signorini della città». Chiunque vinca le elezioni domenica stenterà invece a trovare il tono giusto per comunicare con gli italiani: e la stessa difficoltà logora Cameron, con Londra che vuole lasciare l’Europa e la Scozia che vuole lasciare Londra, Rajoy, sotto il 10% nei sondaggi e con la Catalogna pronta alla secessione, Hollande di cui i francesi sono delusi come delusi, subito, furono di Sarkozy.

In Italia e in Europa una popolazione, sempre meno giovane, guarda al passato, gli anni del boom economico, della liberazione sessuale, della pace, con nostalgia personale e politica. Alle urne impugna la propria amarezza mentre i giovani, morsi da crisi e disoccupazione, non hanno né i mezzi per innovare come i coetanei d’America, né l’entusiasmo per creare un movimento politico.

Ma l’amarezza non paga in politica o nella vita. Guardate alle elezioni per la Casa Bianca dal Novecento in avanti, sempre il candidato con il messaggio più ottimista prevale sul rivale cupo. A torto o a ragione, vogliamo sentire dai nostri leader parole di fiducia. Si cita spesso il «Sangue, sudore, fatica e lacrime» di Churchill come esempio di leader capace di esporre le difficoltà al Paese: ma sbagliando, perché Churchill era in quel 1940 super ottimista col messaggio di resistenza, mentre i colleghi pessimisti, Chamberlain e Halifax, volevano arrendersi subito a Hitler.

C’è dunque un «comune discorso positivo» che il prossimo governo possa avviare dentro e fuori dal Parlamento oltre «lacrime e sangue»? Se i sondaggi saranno confermati il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, dovrebbe avere una maggioranza alla Camera, con circa il 35% dei suffragi, contando al Senato sull’appoggio del premier Monti con Casini e Fini. Berlusconi, a venti anni dall’esordio in politica, ha ancora un blocco sociale intorno al 25% con la Lega Nord, a riprova che il suo non è stato movimento di «plastica». Quanto a Grillo, il boom 5 Stelle è monito contro chi troppo a lungo ha nascosto la corruzione, ma le tossine populiste e l’intolleranza rischiano di deludere gli elettori e creare ostruzionismo.

Il dialogo potrebbe nascere allora sulle riforme. In campagna elettorale nessuno ha parlato di riforme come un bene, il Paese è nervoso, troppi temono che tecnologia, ricerca, nuovo sapere digitale siano giochi snob proibiti ai senza lavoro. È un mito falso che farà danni terribili. Per mantenere lo sviluppo del Nord e crearlo al Sud, perché una generazione non resti disoccupata a vita, la sola strada è innovare. Pensate ai tagli della spesa pubblica necessari contro il debito: se inflitti cancellando investimenti eliminano lavoro e spaventano. Se la spesa si riduce con maggiore efficienza di pubblica amministrazione, scuola, aziende, burocrazia ecco una riforma efficace e indolore, su cui da tempo lavora l’economista Rogoff.

Bersani sa che una manovra fino a 13 miliardi di euro incombe sul 2013. Sa che indebitarsi non è strada percorribile, ma sa anche che il «New York Times» liberale e l’austero commentatore del «Financial Times» Martin Wolf definiscono «perversa» la filosofia dell’Unione Europea di tagliare spesa e fare un totem del bilancio, nel mezzo di una recessione con milioni di disoccupati.

Le riforme vere, non quelle dei petulanti che in nome della purezza liberista spaventano la gente, sono nel XXI secolo ormai al di là della lite Stato-Mercato. Lo Stato facilita scuola ricerca e start up e sostiene i lavoratori che non hanno il sapere necessario nel presente, il Mercato promuove innovazione e diffonde tecniche, per esempio printer 3D e produzione digitale, utili in un Paese di piccole imprese. In due generazioni, grazie alla tecnologia, in Sud Corea si è passati dalla fame al benessere: perché non in Sicilia, in partenza assai meno arretrata?

Parlare agli italiani, frustrati da vent’anni di polemica e governi deboli, di riforme per crescere, non per tagliare teste, darà al prossimo premier una chance di ascolto. La usi: e chiunque sarà all’opposizione dia una mano, perfino Grillo se non vorrà passare alla storia come il nuovo Guglielmo Giannini.