Ci sono foto che diventano icone di un conflitto, il miliziano della Repubblica spagnola ferito di Robert Capa, la bimba Phan Thi Kim Phúc ustionata dal napalm in Vietnam di Nick Ut. E ci sono invece foto che riproducono le divisioni di una guerra. Il reporter americano Eddie Adams, il primo febbraio 1968 scatta mentre il capo della polizia vietnamita Nguyen Ngoc Loan, con il revolver spara alla tempia del guerrigliero Vietcong NguyenVanLém e crea il simbolo del terrore a Saigon. Nessuno ricorda però che, a lungo, Adams provò invano a raccontare il contesto della tragica foto «Il generale Loan uccise il Vietcong, io uccisi il generale con la mia foto. Le fotografie sono le armi più potenti al mondo. La gente crede nelle immagini, ma le fotografie mentono, anche senza alcuna manipolazione. Sono solo mezze verità. Quel che la mia fotografia non dice è “Cosa avreste fatto voi, al posto del generale Loan in quel posto e in quel momento di un giorno terribile, se aveste preso il presunto colpevole dopo che aveva ammazzato a freddo uno, due, tre soldati americani?”». 

 Scusandosi con Loan, Adams non lo giustifica, ammette con onestà che la sua foto storica è «una mezza verità», senza contesto. La stessa cautela può essere usata davanti alle terribili fotografie che la rete tv americana Cnn, il quotidiano inglese «The Guardian» e l’agenzia semiufficiale di stampa turca Anatolia hanno diffuso di prigionieri siriani torturati, uccisi, affamati dal regime di Assad. Un ex fotografo delle forze di sicurezza di Damasco, detto Cesar, le avrebbe trafugate e tre esperti internazionali, Sir Desmond de Silva, pubblico ministero per i crimini in Sierra Leone, David Crane, pubblico ministero nei processi per le violazioni dei diritti umani perpetrate dall’ex presidente liberiano Taylor, e Sir Geoffrey Nice, ex pm nel processo al despota serbo Milosevic, le hanno convalidate come «Prova certa». L’opposizione siriana parla di «genocidio evidente» e di 11.000 giustiziati. 

 Damasco reagisce e paragona «Cesar» a «Curveball», la fonte che si rivelò poi non attendibile, sulle armi di sterminio di massa di Saddam Hussein, segnalando la coincidenza tra il rapporto sulle sevizie e la Conferenza sulla Siria che si apre a Ginevra. Che infine l’inchiesta sia organizzata dal Qatar, vicino ai ribelli contro il governo alawita, sarebbe segno ulteriore di non credibilità. Come il povero Adams comprese solo tardi, non serve però a nulla guardare le immagini come fossero fuori dal mondo, senza tempo e spazio. Illudersi che un fotogramma ieri, un mosaico di pixel oggi, ci restituiscano la verità, senza la fatica, il dolore, il tempo passato a studiare, informarsi, riflettere, pensare, decidere, giudicare induce ad errori. 

 La guerra civile in Siria ha fatto 130.000 morti civili e ha seminato milioni di profughi in Medio Oriente. Lo scorso ottobre l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch, nel rapporto «Dentro il buco nero» (http://goo.gl/JZOl6w) ha denunciato «sistematiche violazioni dei diritti umani e torture che sono crimini contro l’umanità» di Assad. Secondo uno studio di Amnesty International «lo stato di polizia di Assad si macchia di colpe che ammontano a crimini contro l’umanità» (http://goo.gl/V1cI7f). 

 Le foto di «Cesar», validate dai magistrati internazionali, non cadono dunque nel vuoto. Non sono «un fotogramma», sono «il film» dell’orrore che Assad sta compiendo, nell’indifferenza della comunità mondiale persuasa quasi che, fermato il blitz minacciato da Obama, in Siria ci sia «pace». Che Russia e Iran appoggino il regime siriano complica sia la Conferenza di Ginevra che un possibile intervento umanitario dell’Onu, impotente per i veto in Consiglio di Sicurezza. 

Giudicate dunque come volete il dossier atroce di «Cesar», pesatelo contro le violazioni dei diritti di cui anche l’opposizione si macchia, con i rapimenti e le rappresaglie comminate dall’ala vicina ad al Qaeda: il verdetto non cambia. Assad è colpevole di crimini contro l’umanità, ma non sarà processato come Milosevic o condannato come Taylor. Debole nel 2012, tornato in gioco grazie alle divisioni dei ribelli e all’inanità occidentale nel 2013, è oggi saldo in sella per l’astuta diplomazia di Putin. Nei campi profughi si spera solo che da Ginevra esca almeno una tregua, un cessate il fuoco, mentre i siriani fedeli al regime – compresi i cristiani terrorizzati dalla vendetta dei fondamentalisti - non immaginano nemmeno più che, come Gheddafi e Mubarak, anche Assad possa finire nella polvere. 

 Chiunque siano le vittime innocenti delle foto, chiunque siano le migliaia di torturati senza un volto e che mai vedremo, in Siria al più possiamo sperare anche noi in un «cessate il fuoco», che limiti i danni e plachi gli orrori. Pace e giustizia sono parole che da Ginevra tanto sentirete, ma che in Siria non hanno traduzioni.