Gli italiani hanno abbandonato il loro quarto primo ministro nel giro di cinque anni, essendosi sbarazzati del magnate della televisione, Silvio Berlusconi nel 2011, del tecnocrate Mario Monti, dell’ ex democristiano Enrico Letta e adesso dello sfacciato rottamatore in persona, Matteo Renzi. 

 

In un referendum che doveva decidere il destino di una serie di riforme costituzionale - Renzi cercava di eliminare alcuni dei meccanismi più dubbiosi della politica italiana – gli elettori sono riusciti a infliggere una dura sconfitta mortale all’ex boy scout fiorentino. Renzi, che entrò in carica da infaticabile outsider, promettendo che avrebbe distrutto i vecchi modi di fare a Roma, si è lasciato annegare nella palude. 

 

Solo due anni fa, alle elezioni europee, Renzi ha vinto con il 40% dei voti al suo Pd, quando era al governo da pochi mesi. La dimensione di questa vittoria, insieme all’energia di Renzi sembravano annunciare una nuova epoca di rinnovamento politico a un’Italia fossilizzata e gerontocratica. Il suo grido di battaglia allora era: “Rottamazione!”, eliminare la vecchia classe dirigente. All’epoca, quella classe dirigente sembrava paralizzata, la destra non riusciva a liberarsi di Berlusconi mentre il centro-sinistra non riusciva a trovare un erede all’ex primo ministro Romano Prodi. Renzi, invece, è entrato a Palazzo Chigi con la promessa di far passare una riforma al mese. 

 

E ha fatto dei progressi, almeno all’inizio. Una volta al comando, Renzi ha adottato le prime riforme economiche: ha cercato di ravvivare il mercato del lavoro italiano, bloccato dal 2008, quando scoppiò la crisi economica. Ha dichiarato la guerra contro lo status quo, coinvolgendo una generazione più giovane in politica e costringendo i vecchi cavalli come l’ex primo ministro Massimo D’Alema e l’ex ministro della Cultura Walter Veltroni ad andare in pensione. Persino Berlusconi sembrava sbalordito dalla sua energia, la sua sagacia mediatica e la sua eloquenza, appoggiando per un periodo il suo governo con il cosiddetto «Patto del Nazareno», che prende il suo nome dall’antico vicolo romano dove il patto è stato siglato. 

 

Ma in breve tempo Renzi ha iniziato a perdere il tocco magico. Invece di rimanere concentrato sulle urgenti riforme economiche - non c’è stata crescita nel Paese per una intera generazione, la disoccupazione è ancora alle stelle e il debito ha raggiunto il 133% del Pil, una cifra sconcertante – ha mandato la sua coalizione incerta fatta da Pd e da una variopinta combriccola di berlusconiani sulla strada pericolosa della la riforma costituzionale, un’impresa che forse era destinata a fallire sin dall’inizio. 

 

Renzi aveva ragione: le strutture governative dell’Italia hanno un forte bisogno di essere riformate. Nel 1946, i padri fondatori della repubblica hanno approvato volutamente un sistema scomodo di pesi e contrappesi, per evitare la concentrazione di potere dopo vent’anni di fascismo. Nonostante le loro nobili intenzioni, hanno portato a uno stato attuale nel Paese in cui governare richiede uno sforzo kafkiano. Potenziali leggi si mandano avanti e indietro tra la Camera dei Deputati e il Senato; una proposta di legge deve essere votata almeno due volte dai deputati e dai senatori, a prescindere della sua importanza, finchè il testo approvato è identico fino all’ultima virgola. 

 

Grazie a una tattica astuta e una grande dose di fortuna, è riuscito a superare questo caos facendo passare le sue proposte per una riforma costituzionale; grazie anche a un’opposizione di centrodestra indebolita dall’assenza di Berlusconi impegnato a fare servizio civile, scontando una pena per truffa e sottoponendosi a un’operazione a cuore aperto. Il ministro delle riforme Maria Elena Boschi, razionale giovane avvocato, è stata fondamentale in questo impegno, persuadendo la vecchia classe parlamentare a passare le leggi; una leader emergente di cui l’Europa non ha ancora visto la fine. 

 

Ma una volta passate le sue riforme dal Parlamento, l’astuzia tattica è stata seguita da una strategia fallimentare: Renzi non ha creato un fronte unito per la campagna del referendum. Salvo la Boschi, il suo astuto ministro degli esteri, Paolo Gentiloni e il suo sagace portavoce, Filippo Sensi, il premier è rimasto completamente solo nel tentativo di convincere gli italiani a votare per il Sì – e si è apparentemente illuso di essere capace di portare avanti il Paese da solo. 

 

Nonostante ciò, Renzi aveva forse ancora la possibilità di sopravvivere a una sconfitta del referendum. Ma non appena le riforme sono state approvate, il primo ministro ha commesso il peccato capitale della superbia. Il giovane leader, che una volta era stato così magicamente in sintonia con i cittadini, ha fatalmente proclamato al sua decisione di dimettersi se le sue riforme costituzionali non fossero state approvate. Questo era Renzi per antonomasia, un giocatore d’azzardo che scommetteva la sua carriera politica come nessuno ha mai fatto nel continuo gioco delle sedie musicali (un gioco dove la musica suona e appena si spegne tutti i bambini devono sedersi, che non riesce è fuori) che rappresenta Roma. A lui però gli veniva spontaneo. 

 

Da giovane, Renzi ha partecipato al celebre quiz televisivo La Ruota della Fortuna. Un filmato che gira ancora su YouTube mostra il “Campione” – cosi lo chiamava il famoso presentatore Mike Buongiorno – che dopo aver vinto vari giri consecutivi, si faceva fregare da una risposta data con troppa fretta. La sua impazienza lo aveva tradito. Questa settimana, la sua passione per l’azzardo e la sua presunzione gli si sono ritorti contro di nuovo. 

 

Beppe Grillo, fondatore del Movimento populista Cinque Stelle che ha vinto le recenti elezioni comunali a Roma e Torino, è stato il primo a sentire l’odore del sangue. Presto, gli altri squali hanno iniziato a girare intorno. Con Renzi distratto dai suoi sforzi di riforme destinati all’insuccesso, il Pd si è immerso nelle stesse lotte interne che hanno afflitto la sinistra italiana per decadi. Gli ex primi ministri D’Alema e Monti hanno fatto una dura campagna per convincere gli elettori a rifiutare le riforme, violando la fedeltà al partito e al gabinetto, martellando Renzi per la sostanza delle riforme in questione. L’ex segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, si è aggiunto a loro, nonostante avesse votato la nuova legge ben tre volte in due anni di dibattito parlamentare. La Cgil, insieme a studiosi di legge guidati dall’autorevole giudice Gustavo Zagrebelsky, si sono uniti in una coalizione bizzarra, con il partito anti-euro e anti-immigrati della Lega Nord, i neo-fascisti, i Berlusconiani e i Grillini. L’ex presidente Giorgio Napolitano e Prodi hanno cercato di mantenere la calma, appoggiando il Sì, ma senza successo. 

 

Il giorno del voto, La Stampa ha pubblicato una ricerca di Catchy, un gruppo di analisti di big data (di cui io faccio parte). La ricerca ha rivelato, con straordinaria chiarezza, che durante la campagna, il Paese non discuteva le riforme né dibatteva gli aspetti cruciali dell’eliminazione del Senato. Il voto di domenica sarebbe sempre stato, nello stile dei gladiatori romani, un’approvazione o disapprovazione brutale su Matteo Renzi, tanto amato in passato. 

 

Va riconosciuto il fatto che il primo ministro ha lottato con forza, affrontando i suoi tanti nemici da solo. Ma alla fine si è arreso. La scorsa domenica, cercava di trattenere le lacrime mentre ammetteva la sua sconfitta, congratulandosi con i suoi avversari, chiamando la sua base a non mollare e a non disperare ed elogiando le passioni democratiche delle Patria. Poi si è dimesso. Resterà al potere solo nominalmente per passare le leggi di bilancio – per poi lasciare l’ufficio in teoria per sempre. 

 

La decisione di Renzi di fare del referendum una questione personale – invitando i cittadini a usare il loro voto come un mezzo per dare il loro verdetto sul suo governo – è stata alla base della sconfitta. È stato un errore, è vero – ma questa spavalderia è una caratteristica innata della sua personalità. Il suo più grave e fatale errore che non si spiega così facilmente, è stato quello di distogliere lo sguardo dalle riforme economiche, in un momento quando gli elettori erano arrabbiati a causa della corruzione e affamati di lavoro, crescita e facilitazioni. Ha lasciato da parte il ruolo di rottamatore per recitare il ruolo di razionale leader della classe dirigente, cercando in vano di ottenere concessioni dai maestri dell’austerity della Commissione Europea con i visi freddi e inespressivi. Così facendo, ha sottovalutato il fervore populista che si espandeva dal Regno Unito fino agli Stati Uniti, alla Francia e adesso l’Italia. 

 

È da mesi ormai che nei salotti romani si cerca di capire chi sarà il nuovo primo ministro, il quinto in cinque sfortunati anni. Sarà l’autorevole economista Pier Carlo Padoan che potrebbe stabilizzare i mercati? O l’ex procuratore nazionale anti-mafia Pietro Grasso? Oppure l’amato ministro della cultura, Dario Franceschini? Il compito di scegliere sta nelle mani di un discreto professore di diritto diventato presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un vedovo tranquillo, Mattarella, è entrato in politica solo dopo che la mafia ha ucciso suo fratello, un politico siciliano. Odia essere sotto i riflettori ma adesso dovrà farlo per forza. 

 

Due anni fa, in un articolo che ho pubblicato su Foreign Policy, ho avvertito Renzi di rimanere concentrato perchè il tempo non era dalla sua parte e le sabbie mobili tipiche in Italia, erano ansiose di ingoiarlo. Non posso dire di essere contento di aver avuto ragione. Mentre i populisti, i fascisti, i comunisti e i grillini festeggiano la vittoria del No, il Paese deve affrontare le turbolenze che si avvicinano senza una mano sicura alla guida. Se il nuovo primo ministro riesce a passare a stento una legge elettorale per tenere lontano dal potere Grillo e il Movimento Cinque Stelle, servirà solo a infiammare ancora di più – questa volta giustamente – la loro rabbia latente e la loro indignazione verso il sistema. 

 

Chiunque vinca, non saranno in programma riforme come quelle che Renzi ha tentato di passare. Lo status quo ha vinto. Il 60% degli italiani ha dimostrato che magari adorano prendersela con i politici mentre sono bloccati nel traffico ma non vogliono un vero cambiamento. Renzi potrebbe svanire presto, prendendo il suo posto nel Museo delle Cere di Leader Italiani Falliti – o potrebbe guardare al 40% che lo ha appoggiato nonostante tutto e considerare la possibilità di salire sul carro ancora una volta. Nel frattempo però, dimenticatevi della crescita, dell’occupazione, delle riforme delle banche, della proposta di legge fiscale, della riduzione del debito e di vedere un raggio di speranza in un Paese che ne ha disperatamente bisogno. 

 

Questo è articolo pubblicato su Foreign Policy. La sua versione in italiano è stata tradotta da Merope Ippiotis.