L’Accademia militare americana di West Point appare sempre nei film come santuario di cadetti che, al grido meccanico d’«Yessir!» «Nossir!», imparano l’arte della guerra. Hollywood sbaglia: chi frequenta ora l’Accademia, da poco finiti i corsi con i tenenti di prima nomina in procinto di andare al fronte in Afghanistan, sa che ospita un dibattito intellettuale aspro, il colonnello Gian P. Gentile, direttore dell’Istituto di Storia militare, contro Michael J. Meese, capo dell’Istituto di Scienze politiche. Per Gentile le guerre che l’America ha combattuto in Afghanistan e Iraq dal 2001 «Non hanno ottenuto granché, non valeva la pena, troppe vittime e spese. Per vedere risultati dovremmo stare a Kabul 90 anni». Per Meese gli sforzi di controguerriglia hanno portato una certa stabilità a Baghdad e progressi anche in Afghanistan prima del ritiro 2014, vincendo «cuori e menti» della popolazione.

La guerra ha sempre dietro filosofia. In Europa le devastazioni dei conflitti mondiali cancellano la riflessione e solo da poco storici come John Keegan e Anthony Beevor riprendono il nesso antico: un popolo combatte secondo la sua cultura, e le guerre che affronta ne formano la filosofia. Nel saggio apparso da pochi giorni The second world war Beevor racconta un episodio censurato, il cannibalismo dei giapponesi ai danni dei soldati nemici, parte fame, parte desiderio di umiliazione: gli Alleati non lo resero pubblico per evitare dolore alle famiglie. Anche nei gulag militari russi molti prigionieri cadono nell’antropofagia, gli italiani organizzano ronde per difendere i compatrioti più deboli.

Orrori dimenticati, senza i quali è impossibile capire passato e presente. Il saggista Marco Scardigli, già docente all’Università di Pavia, segue Keegan e Beevor - parlare dell’esperienza umana - nel volume Le battaglie dei cavalieri, l’arte della guerra nell’Italia medievale (Mondadori, pagg. 485, € 13). Si va dallo sbarco degli arabi in Sicilia nell’827 - chiamati, manco a dirlo, da un aristocratico bizantino contro i suoi correligionari - all’ultima resistenza, dopo una vera guerriglia combattuta nelle regioni interne dell’isola, nel 1246, quando Federico II distrugge la fortezza di Entella, sul Belice.

Il dilemma di West Point affligge sempre i contendenti. Sterminare il nemico sconfitto o assimilarlo, come fanno gli arabi pur imponendo agli «infedeli» di pagare una tassa per la libertà religiosa, o i Normanni e Federico, tolleranti ma fino a un certo punto, l’Illuminismo è ancora lontano da venire? Si combatte secondo cultura. Per gli arabi, come per i popoli delle steppe, Unni, Mongoli, la fuga improvvisa, la finta rotta per poi contrattaccare con le frecce, sono astuta pratica sul campo. I cavalieri teutonici, impegnati presto nelle Crociate, vivono invece la carica come prova di superiorità razziale, aristocratica, religiosa. Le armi, che Scardigli analizza con attenzione, corroborano le differenti tattiche, leggere e flessibili da una parte, pesanti e blindate dall’altra. A metà i Normanni, uomini del Nord venuti a fare la guerra e costruire il Mezzogiorno d’Italia, persuasi con Ruggero d’Altavilla - secondo la cronaca di Goffredo Malaterra - che ci si debba battere «con le armi o con l’inganno purché si raggiunga la vittoria».

I combattimenti punteggiano la vita dei mercenari, dei contadini che vedono i raccolti saccheggiati - negli assedi per indurre i difensori alla sortita era pratica comune incendiare le campagne circostanti il castello -, dei cavalieri nobili in cerca di bottino o fama. Se le truppe dell’ultimo erede di Federico II, il biondo adolescente Corradino, non si fossero prematuramente abbandonate ai saccheggi a Tagliacozzo in Abruzzo nel 1268, il sogno imperiale degli Hohenstaufen di unificare l’Italia si sarebbe realizzato ben prima del 1861. Dante combatte a Campaldino nel 1289, scontro deciso dall’irruento guelfo Corso Donati che contravviene agli ordini e attacca la fanteria ghibellina di Arezzo, debellandola. Gli aretini cadono in 1700, dei 2000 prigionieri tradotti a Firenze pochi sopravvivono.

Tempi spietati. Negli assedi le catapulte lanciano oltre le mura teste mozzate per far paura, carogne di animali ed escrementi infetti per seminare guerra batteriologica. Talvolta si preferisce la guerra psicologica, e gli assedianti affamati liberano pollame ingozzato con il poco grano rimasto fingendo abbondanza. Fuori dalle mura si organizzano grottesche corride di ciuchi montati da prostitute per irridere i difensori.

Tante nostre abitudini derivano dai giorni lontani del ferro e del fuoco. Il Palio, a Siena e in altre città, ricorda le giostre per addestrare a battaglie e alle razzie. Il saporito zampone nasce a Modena nella stagione degli assedi, quando occorre insaccare carne in fretta e il budello è finito. Molti centri del Sud Italia sorgono distanti dalla costa per scampare alle incursioni dei Saraceni, che rapiscono donne e giovani - spesso poi educandoli all’Islam - e trucidano i maschi adulti. Le torri in pietra che punteggiano le scogliere ospitavano vedette. I castelli del Nord sono fortezze tattiche di questa perenne battaglia. Guardate il fregio pittorico dell’Arengo di Novara, o la Porta dei Leoni di San Nicola a Bari. Vedrete cavalieri con le armi nelle varie posizioni di battaglia, la lancia scagliata come giavellotto o trattenuta sotto l’ascella per l’urto, l’arcione che trattiene in sella al momento del duello, la correggia di cuoio che salva lo scudo se il guerriero cade. Manuale di guerra in monumenti d’arte.

Il libro ha qualche ripetizione - Palermo metropoli di 300.000 abitanti senza rivali in quel tempo; gli aneddoti della battaglia di Benevento - e qualche ingenuità di scrittura - «Dante Alighieri…non ha bisogno di essere presentato». Alcune affermazioni son discutibili, non è vero, per esempio, che gli arabi abbandonarono la Sicilia «senza... particolari rimpianti». Al contrario la piansero a lungo, il Diwan, canzoniere di oltre 6000 versi del romantico Ibn Hamdis nato nel 1056, lamenta l’isola «vuote le mani ma pieni gli occhi del ricordo di lei».

Nel complesso però, con l’ausilio di ottime cartine militari, Le battaglie dei cavalieri vi riporta al tempo delle armi, perché la guerra permea pace e cultura, nel Medio Evo e a Damasco oggi. Scardigli ricorda la paura, la morte e l’orrore che le fiabe esorcizzano: i feroci «cinocefali», creature metà uomo e metà cane; l’ultima guerriera islamica che fa innamorare Federico II, ma rifiuta di sposarlo e si uccide pur di non arrendersi; Bonconte da Montefeltro, combattente ghibellino caduto a Campaldino, che prega la Madonna di salvarlo dalla dannazione prima di spirare con le braccia in croce e il diavolo, folle di rabbia, fa scempio del cadavere. «Una storia bella e dolce - conclude Scardigli - che Dante introduce con una terzina mesta, a ricordarci che i guerrieri sono pur sempre uomini mortali e … (capita che) il caduto in battaglia sopravviva nella poesia, ma scompaia dalla vita e dalla memoria delle persone care: “Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;/ Giovanna o altri non ha di me cura;/ per ch’io vo tra costor con bassa fronte”».


(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 9 giugno)