Se entraste in una redazione, non importa se in Europa o negli Stati Uniti, e chiedeste di botto ai colleghi, che, seduti a distanza, in frenetico contatto con i reporter in telelavoro, portano avanti, coraggiosi, l’informazione, “Chi ha messo nei guai il giornalismo secondo voi, ragazzi?”, la risposta ubiqua, bofonchiata da dietro la mascherina calata sul volto, sarebbe la solita “Il web, internet”. Ma le cose sono assai più complesse, come sempre nella vita. E la sfida che il nostro mestiere, per me mestiere di famiglia, affronta oggi ha infatti ragioni lontane e diverse tra loro e data da ben prima della tecnologia. Una tra le cause più importanti, e meno discusse, è la difficoltà del giornalismo classico di narrare non eventi singoli, ma processi storici.

Se considerate i fatti del nostro tempo, la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Urss, l’11 settembre, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia Covid-19 del 2020, vedrete che la stampa, la tv, i new media hanno brillato, davvero, nel raccontare i fatti. Anche da noi, date un’occhiata al Meridiano Mondadori curato da Franco Contorbia sul Giornalismo Italiano del Novecento. Se invece indagate sul lungo, quotidiano, sordo, lavorio che porta all’evento clamoroso, vedrete la difficoltà dei giornalisti di analizzare il fondamentalismo islamico, la frattura interna al mondo arabo tra accettare o negare la modernità, le tensioni della globalizzazione, che arricchiva i paesi un tempo poveri, impoverendo nel contempo il ceto medio negli Usa e in Europa. O magari vi chiederete perché nessun quotidiano scommettesse sulla fine dell’Unione Sovietica, che pure una studiosa solitaria, la Helene Carrère d’Encausse, descriveva con precisione nel suo saggio “Esplosione di un impero?”, tradotto 40 anni fa dalle valenti edizioni E/O .

Vi accorgerete così della differenza tra scrivere di quel che accade e ragionare sul “perché” accada proprio adesso. Quali segnali deboli, quali fatti apparentemente poco importanti, abbiamo mancato di segnalare?

Un’altra geniale studiosa, Roberta Wohlstetter, nel suo capolavoro “Warning and decision” del 1962, argomenta sullo stesso tema: come fu possibile che Governo, intelligence, difesa e pubblica opinione negli Usa, malgrado avessero a disposizione una messe unica di informazioni, non riuscirono a prevenire l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 1941? Questa è, altro che web!, la sfida che ci attende, imparare con umiltà a setacciare minuscoli episodi, dati si chiamano adesso, per coglierne i nessi a prima vista invisibili e comprenderne le conseguenze, i processi prima dell’evento, e per riuscirci macchine, algoritmi e reti sono alleati, non nemici.

Ecco la lezione, formidabile, ci viene in queste ore dal movimento politico, sociale e culturale che squassa gli Stati Uniti d’America, dopo l’ingiusta morte dell’inerme afroamericano George Floyd, ucciso dall’agente Derek Chauvin, omonimo dello Chauvin, padre presunto dello “sciovinismo” intollerante. Tanti attribuiscono le tensioni alla svolta populista impressa dal presidente Donald Trump al partito repubblicano, che fu dell’emancipatore degli schiavi Abraham Lincoln, e certo la politica dell’ex businessman di New York ha il suo peso. Ma l’avvento di Trump nell’antico Grand Old Party repubblicano, sarebbe stato possibile se Lee Atwater, il focoso consulente del presidente Bush padre, scomparso a soli 40 anni nel 1991, non avesse importato in campagna elettorale 1988 l’odio razziale, la paura dei neri, considerati tutti criminali, con il famigerato spot di Willie Horton, un killer nero che era stato messo in libertà nello stato del candidato democratico Mike Dukakis, il Massachusetts? Bush, un aristocratico moderato e certo non razzista, lasciò fare pur di vincere, ma i demoni furono messi in libertà e da allora, anche grazie al movimento dei Tea Party, nato come rivolta fiscale, ma finito come sponsor di una sorta di Lega Nazionalista dei Bianchi, tormentano il partito repubblicano. 

La stessa dinamica, distinguere le radici lontane degli eventi che ci sorprendono, è indispensabile per studiare la rivolta in corso in America. Vediamo Jim Mattis, generale a quattro stelle dei Marine, un uomo così duro da essere soprannominato dai suoi uomini “Mad Dog”, cane rabbioso, nomignolo che detesta, mentre ama il suo nome in codice, anch’esso in realtà assai poco rassicurante, “Chaos”, investire dal periodico progressista The Atlantic il presidente come minaccia per la Costituzione, e ci stupiamo. Leggiamo di John Kelly, generale dei marine arruolato ai tempi del Vietnam, durissimo ministro della Sicurezza di Trump, rigido contro l’emigrazione, il figlio Robert caduto da tenente dei marine in Afghanistan nel 2010, uomo tutto d’un pezzo che il presidente sceglie infatti come capo di Gabinetto, il consigliere principale, che rompe, dopo una vita sull’attenti, i ranghi, schierandosi con il commilitone Mattis contro l’ex leader. Intanto i Marines proibiscono, dopo la morte di Floyd, l’uso della bandiera confederata, Stars and Bars, vessillo del Sud razzista e secessionista, simbolo caro a tanti negli Usa e che il primo emendamento alla Costituzione protegge come libertà di parola, benché per i neri sia, giustamente, odiosa icona della schiavitù. Nessun marine che abbia prestato il giuramento Semper Fi, sempre fedele, può ora entrare in una base, in una caserma, se ha Stars and Bars su un adesivo sul parafango, un portachiavi, la maglietta pena un provvedimento disciplinare.

Mi è ritornato in mente, leggendo su Stars and Stripes, il foglio delle forze armate, della scelta raziocinante del corpo dei Marine, un giorno bollente dell’estate 2003, in Iraq, mentre la guerriglia jihadista prendeva piede. Ero alla base militare Usa di Tikrit, il paese di Saddam Hussein, regno dei guerriglieri. Usai la latrina da campo, cilindri di plastica color kaki dove il sole faceva bollire persone ed escrementi. Sul muro interno, sopra il water, una formale scritta colorata ammoniva: “Se lasciate graffiti sessisti o razzisti in questo bagno sarete processati dalla Corte Marziale”.

Questi sono gli Stati Uniti, e questo è difficile capire per gli europei. Sterminata nazione incapace ancora di organizzare una polizia che non discrimini tra cittadini bianchi e cittadini neri, ma capace di eleggere presidente uno smilzo laureato ad Harvard, figlio di una ragazza madre bianca e un assente padre africano. Leggo delle manifestazioni per i diritti civili negli Usa che affollano Germania, Londra, Canada, vedo la solidarietà di sportivi in Europa, dal giovane Thuram, figlio di un padre che, in un’intervista a Francesca Paci de La Stampa, promosse i diritti umani già dopo l’11 settembre, vedo la squadra della Roma, il sito degli interisti Bauscia Cafe, in prima linea contro il razzismo e me ne rallegro.

Penso poi quanto tempo ci vorrà per vedere al 10 di Downing Street un premier di origine giamaicana, un cancelliere tedesco, non solo un giocatore in nazionale, dal nome turco, un presidente francese all’Eliseo di famiglia algerina e un presidente del Consiglio a Roma emigrato dall’Albania. Eventi contro processi, sempre.

Tocca a voi decidere dunque come considerare i giorni americani. Se con quello che il poeta premio Nobel Salvatore Quasimodo chiamava “il cuore vile dell’orologio”, singolo evento dopo singolo evento, tic toc, o se invece come riflesso straordinario di una storia unica e remota. Qualcuno si meraviglia nel vedere i vertici militari contraddire il presidente, dimenticando il legame secolare che lega in America politica ed esercito: fino all’imprenditore Trump, i presidenti Usa tutti avevano svolto solo due mestieri, politici o militari, e basta. Il primo presidente, Washington, era un generale, Lincoln batté il borioso generale McClellan alle elezioni del 1864, lo aveva licenziato preferendogli il modesto generale Grant, poi presidente a sua volta dal 1869. Il generale Eisenhower, vinta la Seconda guerra mondiale, fu eletto alla Casa Bianca nel 1952 e 1956 e Curtis LeMay, per alcuni modello del Dottor Stranamore del film di Kubrick, generale stratega della guerra atomica a tutti i costi, fu candidato vicepresidente del candidato razzista, ex democratico, George Wallace, nel 1968.

Una volta il direttore del Corriere della Sera Ugo Stille, forse, con Enzo Forcella direttore di Radio 3, il giornalista che io abbia conosciuto più capace di guardare ai processi storici, “la forza delle cose” li definiva, oltre a singoli episodi, mi raccontò dei giorni della guerra di Corea, quando nel 1951 il generale MacArthur, che nel 1932 aveva disperso a Washington i poveri con la furia delle peggiori cariche di questi giorni, voleva colpire la Cina con l’atomica, a costo di far scoppiare la III guerra mondiale. Il presidente Truman non lo ascoltava, MacArthur giostrava con crescente arroganza e Stille, profugo in America per sfuggire alle leggi razziali del 1938 in Italia, temeva una deriva da colpo di stato, come Mussolini nel 1922 e Hitler nel 1933. Sua moglie Elizabeth Bogert, brava giornalista del vecchio Readers’ Digest, lo interruppe secca “In America i militari non vanno al governo con la forza, si devono far eleggere. La nostra è una democrazia”.

Elizabeth aveva ragione. La reazione alla morte di Floyd, seguita a troppi omicidi di afroamericani fermati dalla polizia, non è ormai un evento, ma un processo, la reazione formidabile di una democrazia all’intolleranza. Il direttore del quotidiano Philadelphia Inquirer si dimette per un disgraziato articolo che equipara i danni agli edifici alle vite umane delle vittime, perfino il poderoso New York Times deve scusarsi per un editoriale del senatore dell’Arkansas Tom Cotton che invoca l’esercito contro le dimostrazioni (pensate alle grottesche, recenti, contorsioni di giornalisti italiani colti in flagrante razzismo…). Sfilano in piazza infermieri e medici “Camici bianchi per Vite nere”, gli eroi delle corsie contro l’epidemia si impegnano contro un altro morbo, la discriminazione. Senatori repubblicani fra cui Mitt Romney, candidato presidenziale 2012, l’ex presidente G.W. Bush e suo fratello Jeb, ex governatore della Florida, intellettuali conservatori, David Frum, Bill Kristol, Robert Kagan, Max Boot chiedono ai repubblicani di schierarsi con Lincoln, non con l’intolleranza e, secondo il sondaggista Nate Silver, il dibattito nel GOP è imminente. 

Chi si appassiona agli eventi calcola allora “con il cuore vile dell’orologio” se un incendio qui o una barricata lì, aiuterà o meno Trump alle elezioni, se la sua strategia di Legge e Ordine, mutuata dal Nixon 1968 potrà, o meno, sostenerlo il 3 di novembre. Ma se guardate invece ai processi di lunga durata, quelli che la scuola francese degli storici delle Annales chiamava “Longue durée”, coglierete infine che la posta in gioco della Casa Bianca 2020, per cruciale che sia, impallidisce davanti alla realtà profonda: l’America sta facendo i conti con due secoli e mezzo di razzismo e decide che basta, si cambia strada. Molti “eventi” si frapporranno, molte resistenze si alzeranno, molti dolori e sacrifici saranno ancora necessari prima che il sogno di Malcolm X e Martin Luther King si compia, ma la strategia illuminata, il processo di liberazione delle coscienze, il cambio di stagione nessun poliziotto arrogante, nessun bullo violento, nessun ingrugnato boss nazionalista, nessun senatore ipocrita sapranno, o potranno, fermare.