In America è il numero 13, non il 17, che porta sfortuna e spesso lo si cancella in ascensori, hotel aerei. Nessuno però sfuggirà, tra Capodanno e 4 gennaio 2013, alla iettatura che i giornali chiamano «fiscal cliff», abisso fiscale. O il presidente Obama e i repubblicani della Camera, guidati dallo Speaker John Boehner, trovano un accordo o scattano 600 miliardi di dollari (€ 460 miliardi) in tasse e tagli alla spesa automatici, inclusi 50 miliardi di dollari alla Difesa. Senza intesa, l’Ufficio del Bilancio stima una caduta del 4% nel prodotto interno Usa, il Paese che scivola in recessione, sei mesi con caduta libera fino a -2,9 nella crescita e solo da giugno a dicembre 2013 un lentissimo ritorno a un gracile +1,9%. Tutti gli americani, ricchi e poveri, pagheranno più tasse, tre milioni di disoccupati, da qui a marzo, perderanno i 290 dollari di sussidio settimanale, 25 milioni di lavoratori a basso salario non riceveranno più vari sussidi, da sanità a scuola. Otto milioni di bambini rischiano la povertà. 

Numeri che basterebbero a forzare democratici e repubblicani al tavolo della trattativa, se l’ideologia non irrigidisse tutti. I repubblicani non votano un aumento delle tasse al Congresso dal 1992, e quando lo Speaker Boehner ha proposto una timida apertura a più imposizione fiscale per i super ricchi, la base s’è rivoltata, minacciando la sua poltrona. Quanto basta perché un politico di oggi perda subito animo. 

I mercati e Wall Street hanno scommesso dapprima sull’accordo, giocando al poker delle previsioni, ora hanno paura e vanno in negativo. Obama ritorna in anticipo dalle vacanze alle Hawaii per aggiungere dramma alla situazione e mettere pressione ai rivali. Non bluffa: se il Paese si ribalta nell’«abisso fiscale» darà colpa ai repubblicani, per costringerli di più nell’angolo dopo la sconfitta di novembre. Anche la sua base ringhia, il «New York Times» lo considera troppo disposto a fare cessioni. 

Gli ultimi saggi moderati del partito che fu di Nixon e Reagan, senatori centristi, chiedono ai repubblicani di trattare, lo stesso Boenher vorrebbe, ma il giuramento «Mai Tasse» che lega troppi deputati ai radicali del movimento Tea Party, può rendere il 2013 anno sfortunato. La trattativa andrà avanti, tra accordi sottili e rotture, metà corte assurda di Bisanzio, metà sfida di pistoleri da Far West, e vedremo come si evolverà. Il lettore può già però trarne insegnamenti utili, perché se lo Zio Sam cade, sia un abisso o solo una botola fiscale, anche l’Unione Europea e l’Italia si faranno male. L’America in recessione, il caos a Washington, la rissa politica permanente dell’ultima potenza, non gioveranno nei prossimi 12 mesi, con il Giappone che prova nuovi equilibri politici, la leadership debuttante in Cina, Italia e Germania alla vigilia di difficili elezioni.  

La lezione americana, comunque finisca, indica elementi di nuova, ruvida, politica che anche da noi presto si imporrà. Il no alle tasse dei repubblicani, radicato da una generazione, non è politico ed economico, è culturale. Indica la fine di un senso civico di comunità, non si vogliono pagare imposte perché tanti ceti si rivolgono a scuola, sanità e pensioni private, vivono in «gated community», quartieri residenziali chiusi, e trovano assurda l’idea di provvedere ai concittadini meno fortunati. La politica, il governo, le burocrazie federali, hanno dissipato, tra sprechi, corruzione e inefficienze, la loro credibilità davanti a milioni di cittadini. Egoismo, certo, ma anche sfiducia consumata nello Stato fiscale, il welfare, la spesa. Mezzo secolo fa i democratici di Kennedy e Johnson dichiararono guerra alla povertà, investirono miliardi per debellarla, ma oggi le minoranze più prospere sono quelle che hanno scommesso su se stesse, sul lavoro, il business, l’etica del lavoro, non sui sussidi pubblici: gli asiatici. 

Per tornare alla solidarietà diffusa il presidente Obama dovrebbe dimostrare che tasse e spesa, sostenute dalla pattuglia di economisti guidati dal Nobel Krugman, sono ancora indispensabili a soli 5 anni dalla crisi del 2008, che chiudere il sostegno, passare a un rigore «tedesco» nella grande America, rischia di duplicare lo stop che colpì lo stesso leggendario presidente Roosevelt quando pensò troppo presto di essere uscito dal disastro del 1929 e dovette aspettare la Seconda Guerra Mondiale per rilanciare il Paese. Errore che, fin qui, la Banca centrale di Ben Bernanke ha saputo evitare. 

L’America non ha più la leva militare, la grande scuola pubblica s’è sfasciata nelle metropoli, i college statali come il City di New York, popolati una volta da grandi scienziati, stentano a chiudere i bilanci. La riforma sanitaria di Obama è detestata da metà del Paese. È vero che la classe dirigente oggi è mediocre, è vero che il Presidente non ha dimostrato grandi doti negoziali, ma se si gioca alla roulette americana, non russa stavolta, sull’orlo dell’abisso, è perché manca un tessuto comune, solidale. 

Da qui a gennaio, con una possibile, drammatica, coda fino a primavera, il duello fiscale continuerà, poi gli Stati Uniti troveranno un accordo, vedremo quanto fragile e provvisorio. Ma, come dicevano gli antichi favolisti latini, De te fabula narratur, la favola dell’abisso fiscale parla di noi, italiani, europei. Le divisioni politiche, sia pur radicali, sono la forza della democrazia, l’alternanza di proposte liberiste e keynesiane, accompagna feconda le diverse stagioni economiche. Quel che rischia di fermare tutti è il contrapporsi di sprechi, corruzioni, egoismo, guerra di tribù sociali. Non è il 13 a rendere sfortunato il 2013, è lo smarrimento del senso e della ragione di cittadinanza comune. I Tea Party originali, nel Settecento, chiedevano «No taxation without representation», niente tasse senza diritti politici pieni, perché erano fieri dei diritti e della politica che li rappresentava ed erano disposti a pagarne il prezzo fiscale. Perduta la fiducia nella politica, il prezzo del biglietto fiscale sembrerà sempre troppo esoso, in America e da noi.