Possiamo considerare tre le stagioni dell’Eroe, la stagione giovanile di Achille, la stagione adulta di Odisseo e la stagione matura di Ettore.

Nei tre eroi omerici la critica, la filologia ma anche il ricordo scolastico di tanti di noi, riconoscono tradizionali caratteristiche, la furia e l’ardore del Pelide Achille, l’astuto coraggio di Odisseo, la coscienza virile di Ettore. Per capire di quali virtù si componga il concetto che definiamo “eroismo”, e che riempie le citazioni delle medaglie al valore, i discorsi nelle cerimonie, i libri di scuola di una volta, dobbiamo tornare con pazienza a studiare i tre eroi classici e confrontare il loro destino con la nostra esperienza di contemporanei.

Le gesta di Achille sono energia pura, primitiva, selvaggia, slancio verso la vittoria e la gloria del momento, così nella pugna, come nella rabbia infantile che lo oppone in assemblea ad Agamennone e nella sterile ritirata dai combattimenti per una ripicca pagata con la morte dell’amato Patroclo. È viva nella memoria la versione del Monti, tanto deprecata ma tanto musicale:

“…l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò…”.

Odisseo, non a caso poi modello dell’uomo del nostro tempo frenetico nel romanzo di James Joyce, è invece eroe capace di trattenere ogni impulso. In tutta l’epica omerica perde la calma solo due volte, picchiando il plebeo Tersite e rimproverando un nobile alla corte dei Feaci che l’aveva irriso come “mercante e non guerriero o atleta”: irato lo sfida e umilia in gara. Sedurre dee, ingannare re e mostri, rischiare il potere e la vita stessa in un gioco di dadi, dove il guadagno del momento, la vendetta, diventano spesso il fine stesso dell’avventura, sopportare i marosi e le ingiustizie, per poi ribaltare la trama e vincere, ecco Ulisse. Nei versi di “Ajace”, il poeta Vincenzo Cardarelli depreca la furbizia con cui Odisseo sottrae al povero Aiace il meritato premio delle armi di Achille:

“Nessun Dio ti protesse, 
niuna gloria t'arrise incontrastata, 
ti fu solo di scorta il tuo valore, 
o fante antico. 
E i Greci ti negarono quel premio 
a cui tu ambivi: 
l'armi d'Achille. Un maestro d'inganni 
te le strappò. Ma in mare 
costui le perse. E il flutto pietoso, 
il mutevole flutto, più sagace 
dell'umano giudizio, più costante 
della fortuna, 
sul tuo tumulo alfine le depose. 
Pace all'anima tua 
infera, Ajace”.

Odisseo, nel VI Libro del poema che porta il suo nome, viene sbattuto dalla tempesta, dopo il naufragio, sull’isola dei Feaci, nudo, disarmato, privato della nave, annegati i fedeli compagni. Sente dei suoni, forse voci, teme siano feroci avversari, disumani, crudeli. Deve decidere cosa fare, ignaro che si tratta dei giochi della principessa Nausicaa con le sue damigelle. Persuaso di trovarsi in pericolo, Odisseo ricorre al “suo” eroismo, adottando la guardinga condotta del leone di montagna, che spinto dal bisogno azzarda un attacco a valle, tra le greggi, per sfamarsi (traduzione del Pindemonte):

“Quale dal natio monte, ove la pioggia
Sostenne, e i venti impetuosi, cala
Leon, che nelle sue forze confida:
Foco son gli occhi suoi; greggia, ed armento,
O le cerve salvatiche, al digiuno
Ventre ubbidendo, parimente assalta,
Nè, perchè senta ogni pastore in guardia,
Tutto teme investir l’ovile ancora:
Tal, benchè nudo, sen veniva Ulisse,
Necessità stringendolo”.

L’eroismo di Achille è furia senza freni, la virtù di Odisseo capacità di gestire i propri talenti secondo le necessità del momento. Ettore arriva all’appuntamento cruciale del suo destino sotto le Porte Scee di Troia, nell’epilogo dell’Iliade. Saluta la moglie Andromaca, di cui intuisce la sorte, schiava del nemico dopo la sconfitta, e il figlioletto Astianatte, che spaventa con l’elmo luccicante e, intenerito, abbraccia: verrà ucciso su quelle stesse mura da Neottolemo, figlio della sua nemesi, Achille, su suggerimento di Odisseo che vuol perdere la schiatta di Ettore.

Davanti al Fato, incarnato da Achille che lo carica spietato per vendicare la morte di Patroclo, Ettore ha paura, fugge, poi si ferma, ingannato da Pallade Atena che si finge Deifobo e promette di aiutarlo. Quando l’eroe capisce che la dea lo ha tradito, ed è solo, non fugge più, ma accetta il dovere con coraggio morale (uso qui, adattandola, la traduzione moderna commissionata per Einaudi da Cesare Pavese a Rosa Calzecchi Onesti):

“Ahi! Davvero gli dei mi chiamano a morte…
M’è accanto la mala morte, non è più lontana,
non è più evitabile ormai, e questo da tempo volevano
Zeus e suo figlio Apollo, arciere di Zeus, che pure tante volte
m’han salvato benigni. Qui m’ha raggiunto la Moira, la Morte.
Ebbene, non senza lotta, non senza gloria morrò,
ma avendo compiuto qualcosa di grande,
che nel futuro gli uomini ricorderanno...”.

Ettore accetta di cadere non inseguendo un effimero successo personale, l’illusione che il poeta inglese Kipling disprezza al pari della sconfitta nel poema “Se” come “impostura”, e neppure scommettendo su una trama sottile: farà piuttosto il suo dovere, fino in fondo. Non è Achille focoso, né Odisseo astuto, è Ettore, umano.

Nel duecentesimo anniversario della fondazione dell’Arma dei Carabinieri, ritorna spontanea questa meditazione sui volti dell’eroismo. Tutti gli italiani sono ammirati, al di là delle divisioni di un paese che non riesce, se non raramente, ad alzarsi unito oltre le fazioni, da figure come il vicebrigadiere Salvo D’Acquisto, la medaglia d’oro al valor militare caduto nel 1943 in un celebre episodio di coraggio e abnegazione. Nel suo caso, così noto, brilla con semplicità la consapevolezza che la comunità valga il sacrificio di un individuo, quella che il senatore americano Robert F. Kennedy chiama nel discorso sulla libertà del 1966 in Sud Africa “la virtù più rara, il coraggio morale”.

Nell’occasione solenne, due secoli di un’Arma ricordata nei libri d’infanzia più cari, in “Pinocchio” di Carlo Collodi sono i carabinieri ad arrestare la marionetta quando si mette nei guai e nel “Cuore” di Edmondo De Amicis è una carica dei carabinieri, avvertiti dal coraggioso Tamburino Sardo, a salvare i reparti assediati su un’altura della battaglia di Custoza nel 1848, vorrei però ragionare su un altro episodio meno noto, e ingiustamente trascurato.

I fatti risalgono al 22 dicembre 1942, II guerra mondiale, la campagna di Russia vede i sovietici fermare l’offensiva tedesca, e contrattaccare intorno alla città di Stalingrado. Il corpo d’armata italiano ripiega, con l’epica sofferenza che l’alpino scrittore Mario Rigoni Stern narrerà in “Il sergente nella neve”. Ogni scontro serve a riaprire le sacche che i russi chiudono attorno agli italiani, per scampare alla morte o al gulag, e rivedere casa. Un soldato di Rigoni Stern, Giuanin, che cadrà nella ritirata, resta nella letteratura italiana per la dolente domanda al superiore, in dialetto, “Sergentmagiù che rivarem a baita?”.

Per tornare “a baita”, a casa, in Italia, marciano il 22 dicembre 1942 ad Arbusov, gli uomini della Divisione Torino, agli ordini del generale Lerici, di scorta i carabinieri della LXVI, in un inverno che, annota nella sua autobiografia “Solik” il giornalista polacco Karol S. Karol, “fu il più freddo in Russia a memoria d’uomo”. Le cronache dagli archivi dell’Arma dei Carabinieri, trascrivono che i russi della 53esima Divisione Guardie, solo i veterani scelti di Stalingrado si fregiavano del titolo “Guardie”, provano ad accerchiare la Torino che ripiega verso Cerkovo, –per non restare dispersa e unirsi a quel che resta della colonna Armir. I tedeschi del generale Hobstfelder, meglio motorizzati e attrezzati, lasciano agli italiani la battaglia di retroguardia contro i mortai sovietici da 120 e le micidiali rampe lanciamissili dette “katiuscia”.

Non si tratta più di guerra di conquista, o scontro ideologico tra i totalitarismi del XX secolo, di cui le democrazie attendono trepide l’esito. È Anabasi primordiale, come quella dei 10.000 fanti greci di Senofonte contro i Persiani, “tornare a casa”. Quando saltano gli ultimi cannoni 149/40 e si profilano sul campo i formidabili carri armati russi T-34, la disfatta sembra certa per gli italiani superstiti. Mai più “baita”, mai più casa. In un mio libro di qualche anno fa, “Principe delle Nuvole”, immagino così la svolta improvvisa che anima la cupa giornata di Arbusov “Ora ti racconto cosa successe nell’orribile confusione…Adesso pare che l’intera Armata in Russia sia stata testimone dell’episodio, lo senti raccontare ogni giorno da un fante diverso…Nessuno ha il coraggio di avanzare, ma neppure di fuggire per primo…Urlavo ordini, tiravo bombe a mano, mandavo indietro i feriti, indietro dove, se eravamo accerchiati? Non oso gridare “Avanti…” come dovrei…Un cavallino russo ha scosso il cavaliere e si avvicina…Massolo, mite carabiniere della Bovisa, gli si avvicina carponi, prende le briglie, lo rabbonisce a carezze…salta in sella, solleva da terra una bandierona tricolore e grida “Avanti…!” come toccava a noi ufficiali. “Avanti!” e carica il nemico…Questa è roba vera…fiocca la morte, i poveretti sventrati chiamano “Mamma mia”, e il carabiniere Massolo prende la bandiera e urla “Avanti”. Senza ferocia, “Avanti” vuol dire “A casa, in Italia, al sole, in famiglia, basta…morire col muso nella neve”. “Avanti” e Massolo cavalca, alamari d’argento sul petto. Noi…atterriti, intronati dai razzi, rassegnati a morire…ci alziamo da terra e rispondiamo rauchi “Avanti”,…“Avanti”, come se a casa si arrivasse d’un fiato. Infilziamo con la baionetta chi ci si para incontro, arriviamo addosso ai cannoni da 120…seguendo cavallino e bandiera, un quadro del Risorgimento ci porta alla salvezza. I russi ci credono matti, come si fa a caricare quell’insormontabile postazione difensiva? Non c’è tempo per la risposta e tocca a loro ritirarsi…Nel bombardamento russo di Arbusov, in ginocchio non intravedevo alcuna strategia. Ma il taciturno carabiniere Massolo carica con la bandiera e incarna “l’audacia illuminata” del Clausewitz, capace di superare il semplice coraggio. Un carabiniere decide la battaglia, perché a noi non resta che seguirlo…”.

Questo è un racconto letterario, fantastico, e “Massolo” il nome di un personaggio romanzesco. Ma l’episodio è reale, i fatti documentati uno per uno, dettaglio per dettaglio dalle cronache della battaglia di Arbusov, a tre giorni dal tragico Natale 1942. Il mio “Massolo” è ispirato a un vero carabiniere, Giuseppe Plado Mosca di 24 anni, nato in Sicilia, ad Acquaviva Platani, Caltanissetta, che a cavallo sprona i nostri all’ultima resistenza ad Arbusov, attaccando di persona e trascinandoli dietro, proprio come in “un quadro del Risorgimento”, “eroismo d’altri tempi”. L’accerchiamento è rotto il 25 dicembre, e la relativa sicurezza di Cerkovo raggiunta il 26, proprio grazie al gesto “risorgimentale, d’altri tempi”. Ad Arbusov, in quella che i nostri battezzano “Valle della Morte”, cadono in 10.000, con 5000 feriti e congelati, 10-15000 prigionieri, di cui pochissimi rivedono l’Italia dopo gulag, malattie, malnutrizione. Senza il coraggio di Giuseppe Plado Mosca non uno dei militari italiani si sarebbe salvato. Il cavallino che aveva montato fu poi ritrovato, tra le linee, scosso, senza cavaliere, sporco di sangue: il carabiniere della 193esima Sezione (le formazioni dell’Arma aggregate alla VIII Armata in Russia si chiamavano Sezioni) riceve la medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione: “Addetto al comando di grande unità impegnata in difficile ed aspro combattimento, si distingueva per cosciente coraggio. Accerchiate le truppe della Divisione e sottoposto a micidiale fuoco di armi automatiche e di artiglieria, confermava il suo valore partecipando reiteratamente a disperati contrattacchi. Benché estenuato dalle privazioni e dal gelo, in un ultimo disperato sprazzo di energia, per primo seguiva un soldato che, a cavallo e agitando il tricolore, caricava l'avversario. Trascinati dal loro magnifico eroismo, centinaia di uomini, benché stremati di forze, in un travolgente assalto all'arma bianca, riuscivano a spezzare il cerchio di ferro e fuoco che li stringeva. Nel raggiungere la posizione avversaria, cadeva colpito da una raffica di mitragliatrice, ma il suo cosciente eroismo consentiva alle stremate truppe della Divisione di aprirsi un varco”. Vallata di Arbusow (Russia), 22 dicembre 1942”.

Vi ho parlato in apertura di “coraggio morale”, il mio personaggio narrante cita l’“audacia illuminata” dello stratega Karl von Clausewitz, la motivazione della medaglia di Plado Mosca scrive infine di “cosciente eroismo”. Parole diverse ma la realtà non cambia, stiamo parlando della “virtù più rara” di Bob Kennedy, esser coraggiosi per gli altri, non per sé.

Nel suo romanzo sulla guerra in Vietnam “Inseguendo Cacciato”, lo scrittore Tim O’Brien, veterano dell’esercito, racconta che “tanto maggiore è la paura, tanto maggiore il coraggio potenziale…”. Da noi il partigiano medaglia d’oro Giovanni Pesce ricorda che “l’eroismo è roba da libri”, il vero coraggio in campo roba da “gente normale”.

Ecco questa è la definizione del coraggio morale, il profondo, non retorico eroismo, che Ettore incarna negli ultimi, maturi, versi dell’Iliade e che ciascuno di noi intravede nelle difficoltà della vita quotidiana. Il coraggio di fare il proprio dovere, senza enfasi. L’ammiraglio Nelson, alla vigilia della strategica battaglia di Trafalgar, 1805, incoraggia i suoi marinai trasmettendo alla flotta con il linguaggio delle bandiere il messaggio “L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo faccia il suo dovere”. Non “eroismi”, solo “dovere”. E 140 anni dopo, ricevuta la notizia della resa senza condizioni della Germania, il Comandante Supremo delle Forze Alleate in Europa, generale Eisenhower, chiede ai membri dello staff di stilare un dispaccio per il presidente Truman, alla Casa Bianca. Tanti provano, stilano pagine sempre più enfatiche, che Eisenhower cassa, scrivendo di pugno appena due righe, laconica pietra miliare della vittoria costata tanti dolori: "The mission of this Allied Force was fulfilled at 0241, local time, May 7th, 1945”, la missione di questa Armata Alleata è stata compiuta alle 0241, ora locale, del 7 maggio 1945.

Nell’osservare l’occasione dei due secoli di vita dell’Arma dei Carabinieri, luci ombre, gesta, vittorie, sconfitte, ricordiamo quanti hanno fatto il proprio dovere come era stato loro richiesto, a servizio della comunità, quanti, in pace e in guerra, in una paciosa stazione di villaggio o nelle turbolente metropoli, hanno dimostrato coraggio morale, la virtù più rara: adempiere alla propria missione, ogni giorno, lontano dalla gloria e dai riflettori, senza cedere alle lusinghe di un mondo indolente, opportunista, codardo.

Gianni Riotta
Princeton University, Maggio 2014

(Dal volume per il Secondo Centenario dell'Arma dei Carabinieri, Mondadori)