Durante il capodanno lunare 1968, il segretario comunista Lê Duan sferra in Vietnam l’offensiva che, battuta sul campo, infrange per sempre la volontà di battersi degli americani. Quaranta anni dopo, gli americani sono alle prese con un nuovo capodanno lunare, stavolta in Corea, l’altra tragica trincea della Guerra Fredda. Aprendo i Giochi Olimpici invernali a PyeongChang, il presidente sud coreano Moon Jae-in guida la cerimonia sfarzosa, coreografie di massa che solo l’Asia disegna, la mitologica Tigre Bianca che si muta nell’ancestrale catena Paetku a cementare Nord e Sud fino al Monte Jiri. 

Per chi non avesse colto il messaggio unitario ai due Paesi, in stato di guerra dalla tregua del 27 luglio 1953, ecco le squadre degli atleti coreani sfilare sotto la bandiera comune blue e bianca, alle note della vecchia ballata «Arirang», per Seul e Pyongyang inno patriottico da sempre. 

Nel gran gelo, Moon dispiega la diplomazia sportiva e accoglie la delegazione più prestigiosa mai venuta da Nord, da quando truppe americane e Onu si batterono sulla neve contro le milizie di Kim Il-sung alleate dei cinesi, mentre il generale MacArthur chiedeva, fino al licenziamento, al presidente Truman di far deflagrare l’atomica, sei anni dopo Hiroshima.

A PyeongChang, ospiti a sorpresa, debutta Kim Yo Jong, sorella del dittatore Kim Jong Un e nipote del rivale della guerra 1950-1953, Kim Il-sung, accompagnata dal presidente onorario Kim Yong-nam. Quando la squadra coreana marcia unita, tra ovazioni calorose, Moon e la Kim festeggiano in piedi, mentre, a due poltrone di distanza, silenzioso, immobile, il vicepresidente americano Mike Pence, capo scoperto nel freddo da duro dell’Indiana, non batte ciglio. 

Alla cena ufficiale Pence eviterà i rivali nordcoreani, preferendo incontrare gli atleti Usa e parlottando con Fred Warmbier, papà di Otto, studente della Virginia misteriosamente morto dopo 17 mesi passati nelle galere nordcoreane (i coreani non hanno ammesso papà Warmbier in tribuna autorità). Il mandato del presidente Trump al suo vice era preciso: nessun incontro con i nordcoreani, linea dura, o dismettono il programma nucleare o sanzioni e isolamento, perfino blitz militari se sfidano Seul o Giappone. 

Le due strategie sembrano opposte, i sudcoreani di Moon a negoziare con Kim, magari d’intesa sotto banco con il presidente cinese Xi Jinping, purché si eviti l’escalation nucleare in cambio di aiuti economici e della sopravvivenza del regime, la Casa Bianca contrarissima alle trattativa. Ieri, nel minuetto di applausi e silenzi, tifo e gelo, entusiasmo e occhiatacce così sono apparsi Moon e Pence. Eppure a PyeongChang si nota come Trump e Moon, magari senza volerlo, agiscano da «poliziotto buono» e «poliziotto cattivo» dei vecchi film gialli, Trump pesta Kim, Moon gli offre una sigaretta perché confessi. 

Kim Jong-un sa di non poter ammorbidire lo spietato regime, il disgelo rischierebbe di travolgere il feudo familiare, ma la mano tesa di Moon gli offre tempo e questo spiega la missione dell’algida Kim Yo-jong. Se Trump mostrasse duttilità diplomatica, dal duetto con Moon potrebbero scaturire risultati: ma il presidente, per ora, tira dritto. È bastato che l’ambasciatore Victor Cha, prescelto come inviato in Corea, si dicesse contrario ai raid preventivi contro la Corea del Nord, perché la Casa Bianca ne rescindesse, in tronco, la nomina. 

Da oggi tiferemo dunque per lo sport - niente di fatto per i russi, squalificati per doping - ma occhio alla geopolitica, dietro ogni medaglia, bandiera, volata su ghiaccio o neve. Guarderemo insieme PyeongChang, tutti tranne i poveri nordcoreani: mentre la famiglia Kim applaude compunta le Olimpiadi, il black out totale della censura le oscura a Pyongyang, per evitare che gli affamati contadini ammirino gelosi il benessere tecnologico dei fratelli oltre confine.