Il presidente Trump impone tariffe contro la Cina, fino al 25% su 60 miliardi di dollari di merci, presentando il caso anche all’organizzazione del Commercio Wto e salvando, per ora, i Paesi alleati dalla stretta protezionista. È un Trump che ha ascoltato i ministri meno irruenti, pur orfani del consigliere economico Gary Cohn, dimissionario, e del segretario di Stato Rex Tillerson, licenziato, ma un Trump che insiste nella strategia del caos.

I numeri dell’economia americana restano buoni, ma non sono buoni quelli del consenso per il presidente, un sondaggio Quinnipiac conferma che anche le donne bianche, fin qui sua roccaforte, sono deluse dal focoso leader e potrebbero voltargli le spalle alle difficili elezioni di midterm, Camera e Senato, che lo attendono a novembre. Una parata di ex modelle, pornoattrici, playmate, annuncia ogni giorno interviste televisive a luci rosse e nuovi scandali.  

Ecco allora la guerra dei dazi, conflitto che il presidente ritiene «facile da vincere», per riconquistare la base militante, operai impoveriti dalla crisi, ceto medio senza le tecniche dell’industria digitale, i poveri persuasi che le merci a basso costo dall’Asia costino loro sanità, mutuo, pensione, scuola per i figli. 

I presidenti Usa hanno spesso usato le tariffe per spronare i concorrenti ad aprire vie commerciali, ma, tradizionalmente, il partito del protezionismo era il democratico, alleato con i sindacati. Il Grand Old Party repubblicano alzava la bandiera del libero mercato, considerando i dazi un pungolo, mai un freno, vedi la «guerra dell’acciaio» di G.W. Bush o quella del «pollo» Anni 60. 

Funzionerà la svolta di Trump? Secondo uno studio del Council on Foreign Relations, nel solo settore dell’auto, i dazi della Casa Bianca rischiano di far perdere tra 18.000 e 40.000 posti di lavoro, pari a un terzo dell’intera forza lavoro impegnata nella produzione dell’acciaio, anziché crearne di nuovi. Quando l’industria automobilistica ha fatto presente le proprie preoccupazioni, si teme un calo nelle vendite globali per i brand Usa fino al 3,6%, il consigliere per il commercio Peter Navarro ha fatto spallucce, «Menano il can per l’aia, fan girare false notizie, esagerano». 

I mercati, ieri, erano assai meno casual e, tra Stati Uniti ed Europa, hanno ceduto, con l’indice S&P 500 giù del 2,5%. Il giudizio a Wall Street è univoco, i prezzi saliranno negli Usa per i consumatori, mentre la manifattura americana, tutta, dall’auto ai robot, soffrirà anche per un dollaro rafforzato. L’export declinerà e il presidente Xi Jinping, colpito dopo le prime intese con Trump nel summit di Mar-a-Lago, potrebbe far scattare dolorose rappresaglie. Parecchi analisti ritengono che Trump spari adesso fortissimo - come ha fatto con la Corea del Nord, passando in pochi mesi dalle minacce di guerra all’idea di un bizzarro summit con Kim Jong-un - per poi tendere d’improvviso la mano a Pechino, incassando magari qualche concessione da esibire come trofeo. 

A 30 settimane dalle elezioni, Trump deve gestire molte partite e tutte complesse. I dazi, il movimento dei giovani contro le armi, l’insofferenza repubblicana in difesa del libero mercato, la manifattura che teme una frenata del boom, l’inchiesta del commissario speciale Mueller sul Russiagate, le starlette che lo accusano di rapporti impropri, la perenne crisi dello staff, stremato dal caos - si è dimesso anche il suo avvocato Dowd, considerato troppo remissivo e sostituito dal pittoresco Joe diGenova. Nella vita da businessman Trump, tra divorzi, bancarotta, debiti e show tv, è sempre sopravvissuto alle crisi. Ora, impegnato nel lavoro più difficile della Terra, scommette sulla «facile» guerra commerciale. Il professor John Conybeare, autore del classico volume «Trade wars» non concorda, ricordando come i conflitti sui dazi abbiano sempre esiti imprevedibili.  

La legge Smooth-Hawley del 1930, che impose tariffe ferree quanto stupide, costò infine all’America il 60% delle esportazioni. Paesi come l’Italia comprarono altrove, perfino nella Russia di Stalin, salvando il regime dalla rovina. L’azzardo di Trump è formidabile, e se anche pagasse alle urne, difficilmente pagherà sulla bilancia commerciale.